venerdì 28 novembre 2008

Novembre - Parte seconda

“Io non dimentico. Accantono.” Era una delle sue frasi preferite, un motto che all’uopo tirava in ballo in riferimento ai piccoli torti della vita quotidiana che rischiano però di lasciare il segno sui rapporti futuri.
Mentre rievoco gli episodi del passato, mi accorgo di avere accantonato anch’io, per tanto tempo, certi particolari. Sapevo perfettamente di non averli dimenticati: li avevo infilati in un armadio, rinchiusi in qualche cassetto della mente; li avevo resi disagevolmente accessibili, per paura che potessero farmi ancora male. Ed invece no. Ricordare e scrivere non fa male. Le dita corrono sempre più agili, sempre più sciolte di tasto in tasto. E scopro, senza negarne la sorpresa, che riversare questi miei segreti in Rete, dà un senso di sollievo. Letteralmente, un peso che mi tolgo di dosso.
Non avevo mai raccontato i fatti di quell’anno orribile a qualcuno: all’inizio, infatti, non escludevo l’ipotesi che il rapporto con Ian potesse riprendere e temevo che, in quel caso, confidarmi con qualcuno, che poi si rivelasse incapace di serbare i miei segreti, potesse rivelarsi un pericolo; poi, a tale prudenza, era succeduto il pudore, la vergogna di me, perché mi ero accorto di tante ingenuità e di tanti errori che io avevo commesso, permettendo che accadesse quanto accaduto; infine, tutto era passato, finito, e rivangare poteva far male.
Ed invece no, tutt’altro. Così, sollevato, torno con la memoria a quel novembre.
Il primo ricordo che riaffiora è quello di un sabato mattina, il primo sabato di quel novembre. Mi alzo che lui è già in piedi da un po’: Ian ha sempre dormito poco, dormire per lui era solo una perdita di tempo; e quella notte aveva dormito ancor meno, dato che l’aveva trascorsa, a quanto mi era stato comunicato, ad una cena ed a un dopocena con un gruppo di affiatate colleghe del lavoro. Raggiungendolo in soggiorno, non posso non notare un mazzo di fiori, in un vaso accanto alla tivù. “E questo…?” faccio io, incuriosito ma affatto sospettoso. “Le ragazze hanno regalato a Gaya tre mazzi di fiori,e a fine serata, con le braccia piene, lei mi ha chiesto di portarne a casa uno, perché a casa sua non ha tre vasi…” “Dai. Non mi avevi detto che era una festa di compleanno. Avevo inteso che volevate solo spettegolare.” “Eh sì… nemmeno io lo sapevo. Mi hanno invitato senza dirmi che si trattava d’un compleanno. Infatti, mi son trovato a mani vuote…” “E ti sarai arrabbiato…” “Affatto. Perché…?” Perché lo conoscevo quel tanto per sapere che, partecipando ad un compleanno senza un presente, si sarebbe sentito molto a disagio. Perlomeno, se le cose fossero andate davvero così. Ma non formulai a voce alta quel pensiero, e lo accantonai.
Come avevo imparato ad accantonare le lunghe telefonate con il Grosso, il suo nuovo amico, quello che gli era stato presentato dalla Storta, quella che mi stimava moltissimo ma Ian non voleva presentarmi.
Una delle cose che invece ho accantonato e non riesco proprio a ricordare è stato il momento in cui fui costretto a trasferirmi dal letto matrimoniale alla stanza degli ospiti. Non ricordo proprio: quel weekend ancora no. Quello successivo direi proprio di sì.
Otto giorni dopo, la domenica, ricordo che eravamo in Piazza Bra. Faceva freddo, avevamo fatto un giro per negozi. Si parlava: avevamo parlato tanto come non facevamo da tanto. Ricordo che ad un certo punto, su una delle panchine di fronte alla fontana, s’era parlato del fatto che il Grosso, che gestiva un bar in compagnia di una socia insopportabile, avrebbe tanto desiderato aprire un bar in società con la Storta; e, pur di cambiar lavoro, volentieri lui si sarebbe associato a loro. Ma avevano già tutti quanti passato i trentacinque anni, mentre sapeva d’un certo bando di finanziamento regionale per progetti intrapresi da giovani sotto i trenta. “È un peccato…” “Beh, visto l’amore che porto per il mio lavoro, potrei anche farvi da quarto socio e portarvi i soldi del finanziamento” dissi, con candore e convinzione. “Lo faresti davvero?” “Perché no…?” “Ma tu, il Grosso e la Storta, nemmeno li conosci” “Sei tu che non me li vuoi far conoscere, e non ne capisco il motivo…”
Di lì a poco gli sarebbe suonato il cellulare. Mi bastò afferrare poche sue frasi per capire che, lupus in fabula, si trattava del Grosso. “Riaccompagnami a casa” mi disse, una volta riattaccato, mentre io sobbalzavo di sorpresa per l’inusuale brevità di una sua conversazione telefonica giunta ad interrompere una nostra conversazione, cosa che invece ultimamente era diventata assolutamente d’uso. “Portami a casa: il Grosso ha problemi con quella stronza della socia, e voglio andare a dargli manforte.” “E se ti accompagnassi io, direttamente da qui…? Così finalmente me lo presenti…” dissi mentre ci sfiatavamo verso il parcheggio. “Senti… c’è una cosa…” cominciò a bofonchiare mentre eravamo in auto, in direzione del bar del Grosso. “Cosa c’è? Hai paura di non ricordare la strada” “Può essere che quando siamo là, tu veda delle cose…” “Quali cose…?” gli chiesi; era tanto insolitamente a disagio, reticente come mai mi ero accorto che potesse essere, mentre io, pensando a delle cose, cominciavo già a figurarmi un locale per scambisti, un intero quartiere frociaro, un ostello per licantropi… “Potresti vedere certi atteggiamenti d’intimità tra me ed il Grosso…” Ecco che cominciavo a figurarmi una verità un poco più plausibile. “Era scosso al telefono, ha bisogno di sostegno, e potrebbe essere che io senta la necessità di abbracciarlo…”
Lo interruppi: “Non sarà il caso che inverta la direzione e ti lasci andare da solo…?” Lui esitò. Imboccai la prima uscita della tangenziale e vi rientrai a marcia invertita.
Ero furioso, tanto da faticare ad articolare i pensieri. “Quando cazzo pensavi di dirmelo!?” Orco cane, se ero furioso. E lui taceva. “Che cazzo pensavi!? Di farmi la bella sorpresa di baciarmelo davanti…?!” E lui taceva. “Ma hai mica un briciolo di considerazione del cazzo per me…? Chi cazzo ti credi di essere!? Cosa cazzo mi consideri, un autista che ti porta a spasso e basta??” “Smettila, tu hai proposto di accompagnarmi.” “Beh, c'erano particolari che evidentemente ignoravo... Che cazzo, e magari a un certo punto pensavi di chiuderti nel retrobottega con lui per ciucciargli il cazzo, ed io fuori ad aspettare…” “Smettila!!!” “Sei un uomo di merda…” mormorai con rabbia, colpendolo nel suo sconfinato orgoglio. “TU SEI UN UOMO DI MERDA! MI HAI DATO SOLO MERDA! LA NOSTRA STORIA ERA MERDA!!!” e me lo urlò nell’orecchio destro con tanta veemenza, con tanta ferocia, che per un attimo persi il controllo dell’auto e sbandai, saltando la corsia, ed il timpano avrebbe continuato a ronzarmi ininterrottamente per tutta la notte. Non ci fu un’altra parola quella sera: scese davanti al garage, prese la sua auto e se ne andò senza voltarsi, mentre io non volevo altro che guardasse quanto stavo piangendo per il male che mi aveva fatto.
Ecco, quest’episodio ancora un po’ brucia. Ma solo perché, guardando indietro da fuori, come se ne fossi stato solo uno spettatore, rifletto sul fatto che, da quel giorno in poi, la mia reazione ad ogni sua sberla, morale o fisica che fosse, era piantargli in faccia i miei occhi gonfi di lacrime, perché prendesse visione del male che mi infliggeva, come se non dovessi rivendicargli altro. E mi accorgo, perché lo vedo solo ora da spettatore esterno, non che lui distoglieva lo sguardo, bensì che lui non mi guardava nemmeno: colpiva alla cieca, sapendo sempre e comunque che avrebbe fatto male, ma non era affar suo: gli bastava guardare altrove. Ma non lo odio ora per questo, come non riuscivo ad odiarlo allora.
Anche quell’urlo bestiale sarebbe stato di lì a poco accantonato. Come veniva ad essere accantonata la festa per il mio compleanno: io non avevo alcunché da festeggiare e non volevo farmi vedere da nessuno, non volevo vedere negli occhi di qualche amico un’ombra della compassione che temevo di suscitare. Mi vergognavo. Volevo semplicemente che il mio ventottesimo compleanno passasse sotto silenzio. Una serata in casa, sul divano, davanti alla tivù a mangiarmi il budino che avevo preparato per me e per Ian. Sì, nel quadretto c’era anche lui, se non altro perché ancora coabitavamo e a lungo ancora avremmo coabitato.
Mi sorprese addirittura con un regalo, che purtroppo non sarebbe stata l’unica sorpresa della serata. Poiché, ad un tratto, prima che avessimo il tempo di tirar fuori dal frigo i budini, suonò il campanello. “Sono il Grosso” disse la voce al citofono. Ian mi guardò, e prima che avessi modo di formulare quello che avevo per la testa, disse “Ti giuro che non sapevo che sarebbe venuto. È una sorpresa anche per me, lo giuro.” “Splendido”, dissi, “un compleanno che non volevo affatto ricordare, sarà per sempre ricordato come il compleanno in cui ho conosciuto il tuo nuovo fidanzato” “Non fare scenate. E poi non poteva sapere che era il tuo compleanno…” Ed infatti, il mazzo di fiori con cui si presentò alla porta non era per me; ma lo trovai alquanto familiare…
Fortunatamente, se vogliamo trovare del buono in tutta questa storia, il Grosso aveva il pregio di essere brutto come il peccato, per cui non passai un solo istante a vergognarmi del fatto di essermi presentato a lui in pigiama, con i capelli arruffati e gli occhialoni da talpa. Passai giusto qualche pomeriggio a chiedermi che ci trovasse di attraente Ian in lui. Ma non troppi: il Grosso non durò fino a Capodanno.
Purtroppo, non avrei avuto il tempo di rallegrarmene: dopo il Lungo ed il Grosso, all’appello avrebbe risposto immediatamente il Cattivo... Ma questa è tutta un’altra storia… E no, non voglio raccontarla. Almeno non per ora.

2 commenti:

lavecchiaMarple ha detto...

Beh, si consoli pensando di non essere il solo ad aver passato un'esperienza simile: a me é toccata cinque anni fa, e proprio nel mese di novembre (che ho sempre detestato già di suo...)
Intanto, auguri!

Edgar ha detto...

Ringrazio per gli auguri e per la compassione (nel senso proprio di condivisione del patimento)
:)