giovedì 31 maggio 2012

5. Di Marco e di quella volta che scrisse "Abbordato" in un sms

“Stai cercando un film?” chiese Andrea, che aveva visto Marco accovacciato a frugare tra una fila di dvd.
“No, niente in particolare. Davo un’occhiata intanto che aspetto un’amica.”
Andrea fece un cenno accondiscendente con la testa, mentre cercava qualcosa da dire. Era la prima volta che cercava di attaccare bottone con un ragazzo da sobrio. O dal vivo, senza lo schermo di un PC e la finestra di una chat aperta davanti. O da vestito, al di fuori dell’ambiente protetto di una sauna per soli uomini.
“Mi parevi tu, prima” disse Marco. “Stavi davanti ai cd, con le cuffie… ma eri di spalle e non ero sicuro…”
“Ah sì, ero io… Stavo ascoltando per curiosità il cd di un tizio che deve aver vinto un qualche talent… ma non ricordo il nome e non so quale talent…”
“Eh sì” replicò Marco con una scrollata di spalle. “Pure io faccio fatica a distinguerli. Poi non ho Sky e non sopporto la DeFilippi… Mi sono fermato a Mengoni. Dopo di lui, niente più.”
“Se non fossi con un’amica, t’inviterei a prendere qualcosa da bere…” azzardò a dire Andrea. Forse qualcosa di alcolico lo avrebbe aiutato nel tentativo di sciogliere il ghiaccio.
“Si può fare lo stesso. Tanto la mia amica è accompagnata e non si offende” rispose Marco. “Le mando un messaggio…” ed estratto il cellulare, prese a digitare: Abbordato. A dopo, baci. “Solo che qua sotto non prende…” disse, ed insieme si diressero e raggiunsero le scale mobili.
Prima di uscire, attraversarono il reparto computer, ma Marco non vide né Stefano né Dario. Poco male, aveva inviato l'sms in copia anche a Ste.
“Il bar in fondo alla strada? Che dici?” domandò Andrea.
Marco approvò.
“Non mi dire che tu abiti qui vicino al centro…”
“No che non te lo dico” rispose Marco. “Abito proprio dietro l’angolo della fermata dove ho preso l’autobus. Se hai visto dove sono salito...”
“T’ho visto e puntato che ancora non eri salito” replicò Andrea. “Io invece sto un po’ più fuori. A S*** L***.”
“Davvero? Per un po’ anch’io ho abitato in quella zona.”
“Siamo stati vicini di casa? Ma non troppo vicini, sennò t’avrei notato in giro… Al supermercato, in parrocchia…”
“Ah no, non frequento quel tipo di parrocchia… Ma vuoi dirmi che sono appariscente? Non mi sembra di esserlo poi tanto…” fece Marco, comunque lusingato.
“No, vabbé. Mica sei appariscente. Però…” Andrea stava per dire Mi piaci ma si fermò. Forse era un po’ troppo presto per dirlo chiaro e senza la scusante di una qualche goccia d’alcol in circolo.
Però cosa?”
“Però però… Però com’è che hai cambiato casa?”
“Il proprietario voleva vendere e io non volevo comprare. L’appartamento era troppo piccolo perché prendessi in considerazione l’idea di farne casa mia.”
“Dove stai adesso è più grande?” domandò Andrea.
“No. È ancora più piccolo. Ma è più comodo a dove lavoro. Ed i proprietari non hanno intenzione di vendere, per cui penso che ci starò finché non sarò pronto per sobbarcarmi un mutuo.”
Erano arrivati al bar e sedettero ad uno dei tavolini fuori, all’aperto.
“Non è troppo presto per bere qualcosa, vero?”
“Magari è presto per un aperitivo, ma per un cocktail non è mai troppo presto. Dico io” disse Marco.
“Un bicchiere di bianco” ordinò Andrea alla ragazza arrivata subito con il taccuino delle ordinazioni.
Marco volle provare a fare il simpatico. “Il vino sa un po’ troppo di provinciale per me. Voglio un cocktail colorato e decisamente più alcolico. Tanto poi torno a casa in autobus”
“Cosa fai? Che lavoro fai?” domandò Andrea, dopo che Marco aveva scelto cosa bere e la ragazza s’era allontanata tutta sorridente.
“Noiosissimo impiego nell’ufficio amministrativo di una piccola impresa di spedizioni nella zona industriale. Tu?”
“Lavoro nella pubblicità.”
“Pubblicità...? Inventi slogan e crei campagne pubblicitarie? Qualcosa che posso aver visto o sentito?”
“Adesso, più che altro, procaccio clienti per la mia agenzia. Cerco di piazzare gli slogan inventati da altri.”
“Come in Mad Men?”
“Più o meno. Ma ho visto solo qualche puntata di quel telefilm…” rispose Andrea.
“Ecco sì. In effetti, a pensarci, visto da vicino vicino, somigli un poco a Jon Hamm…”
“Non sei autorizzato a dire stupidaggini. Non hai ancora avuto il tuo cocktail.”
“Ma no, sul serio” replicò Marco. “Solo più abbronzato e con un taglio di capelli più attuale…”
“Sì…? Non ti sembra un po’ troppo provinciale il mio taglio?”
“Dolce lui… Ti sei offeso per quello che ho detto?”
Andrea sorrise e fece cenno di no con la testa.
“Era solo una battuta. Infelice: me ne sono reso conto appena m’è uscita di bocca” disse Marco. “Non sono capace a fare il diplomatico, ma il dramma è che la maggior parte delle cavolate che dico nemmeno la penso davvero…”
“Ma non sono offeso per il tuo provinciale. Ho ordinato il vino solo perché quelle cose colorate ed ombrellate – come quella che ti sta arrivando adesso – mi sembrano un po’ troppo frociarole. Per lo meno, di pomeriggio…”
La cameriera poggiò sul tavolino il calice di bianco ed il bicchiere blu con ombrellino e cannuccia intonati, e con essi un paio di ciotole con degli stuzzichini.
“Sì, in effetti ‘sta cosa blu è estremamente frocia” disse Marco. “Ma nella foto sul listino sembrava sposarsi perfettamente con il colore dei miei occhi…”
“Ma tu non hai gli occhi blu…”
“E tu non sei affatto simpatico a ricordarmelo” disse Marco, prima di stringere le labbra a cuore attorno all’estremità della cannuccia.
Andrea alzò il calice e rise. “Che sciocco. Non sono blu però a me piacciono lo stesso.”

L'episodio 1.
L'episodio 6.

lunedì 28 maggio 2012

4. Di Marco e di quella volta che disse "A m'arcord" con un improbabile accento romagnolo

Il ragazzo dell’autobus, quello che non gli aveva staccato gli occhi di dosso per tutto il tempo del viaggio, se ne stava ora a tre passi da lui, davanti ad un altro degli espositori per l’ascolto dei cd, giusto quello alla sua sinistra, cuffia calata sulle orecchie, mano che batteva il ritmo su una coscia.
Marco immediatamente chinò il capo, distogliendo lo sguardo. Lesse un paio di volte la tracklist sul retro del cd che teneva in mano prima di darla vinta alla curiosità e di rivolgere un’occhiata al ragazzo.
Lui appariva sinceramente preso dall’album che stava ascoltando e non  sembrava essersi accorto di lui. Le dita che prima batteva contro la coscia ora tamburellavano sui cd in esposizione, mentre dondolava il capo e le spalle. Era davvero, davvero molto, molto attraente…
Quando una ragazza lo urtò per sbaglio sottraendolo al proprio rapimento, lo sconosciuto si voltò alla propria sinistra per vedere chi fosse stato. Indugiò qualche istante, voltando le spalle a Marco che ne approfittò per sbirciargli il sedere stretto nei jeans, che pareva essere davvero bello tondo. Quindi il ragazzo tornò ad ascoltare la sua musica. Ed eccolo a tradimento voltarsi distrattamente anche alla sua destra, giusto in direzione di Marco.
Marco si sentì avvampare, come fosse stato colto in fallo, ma il ragazzo non dimostrò in alcun modo di averlo riconosciuto e tornò a concentrarsi sull’ascolto dell’album nelle cuffie, completamente estraniato.
Marco ci restò malissimo, sentendosi quasi tradito. Riagganciò le cuffie e su due piedi s’allontanò. Al confine tra il reparto musica ed il reparto cinema, ebbe un’esitazione e si fermò, ma con uno sforzo s’impose di non voltarsi indietro.
Fu allora che Carlotta lo raggiunse e prendendolo per la spalla gli mostrò il libro che aveva scelto.
“Ti avevo lasciato con Antonella Clerici e mi arrivi con Isabella Santacroce…?” bofonchiò Marco.
“Già” rispose Carlotta, accompagnando la stringatissima affermazione con una mimica facciale che doveva sottolineare la convinzione della scelta effettuata.
“Guarda Charlotte…” cominciò col dire lui, dopo averle preso il libro di mano ed averlo un poco sfogliato. “Ho letto un paio dei suoi libri e a me la Santacroce piace… Però è un genere un po’ particolare e se non conosci proprio bene i gusti della tua amica e non sai se magari…”
Carlotta non lo lasciò terminare la frase. Gli sottrasse il volume dalle mani, girò i tacchi e senza proferire verbo tornò a passo veloce al reparto libri.
Marco si pentì subito di non essersi morso la lingua e di aver minato alle fondamenta la convinzione della sua amica: quel che voleva era allontanarsi da quel posto, tornare al piano superiore, fare un paio di complimenti di circostanza all’eventuale nuovo i-pad di Dario ed andarsene. Ora invece doveva aspettare Carlotta.
Diede un’occhiata al cellulare per assicurarsi che Ste non avesse sollecitato con un sms la loro riapparizione. Ma niente. Si avvicinò al primo stand di dvd, attento a dare le spalle al resto della sala.
I suoi occhi correvano su quella variopinta ed eterogenea parete di titoli e copertine/locandine, senza trovare un film che attirasse la sua attenzione. Del resto, i suoi pensieri erano tutti focalizzati sul ragazzo coi capelli scuri che non l’aveva proprio riconosciuto. Non l’avrebbe ammesso mai nemmeno a se stesso, ma la faccenda lo aveva offeso. E lui stesso non si capacitava del fastidio che stava provando.
Si accovacciò per dare un’occhiata tra i titoli che cominciavano per An. Passò in rassegna tutti i dvd della fila, scartabellandoli uno per uno, senza nemmeno leggere i titoli per intero. Appurato che non c’era il film che gli era venuto in mente di cercare, si rialzò dritto in piedi, accorgendosi in quel momento di avere qualcuno affianco.
“Ehi” disse il ragazzo coi grandi occhi neri.
Marco lo guardò, sorrise e si limitò ad un cenno della testa.
“Sai mica l’ora?” gli domandò lui, come aveva fatto sull’autobus per attaccare bottone.
“Ancora…?” scappò di bocca a Marco che, corrucciando la fronte, cominciò a frugare nella tasca dei pantaloni dove aveva riposto il cellulare.
“No, lascia stare. Era solo per vedere se ti ricordavi…”
A m’arcord…” rispose Marco, in un improbabile accento romagnolo, cogliendo al balzo il suggerimento di una locandina appesa alle spalle del suo interlocutore.
Lo sconosciuto diede segno di non aver inteso il significato della risposta.
“Vuol dire Mi ricordo in romagnolo…” spiegò Marco, che in quel momento si sentiva piuttosto stupido.
“Bene. Allora me lo segno” replicò sorridendo lo sconosciuto, che poi aggiunse: “Io sono Andrea” e gli tese la mano.
“Io sono Marco” rispose. Dopodiché aggiunse: “Segnatelo.”

L'episodio 1.
L'episodio 5.

venerdì 25 maggio 2012

3. Di Marco e di quella volta che non aveva cazzi per lo shopping

Che cose strane siamo noi umani, che passiamo tanta parte del poco tempo che abbiamo a far cose sciocche come cercare una maglietta del colore che meglio s’intona alla nostra personalità e che se ne sta nascosta in una pila di altre magliette della stessa taglia, che addosso ci stanno ugualmente, ugualmente ci vestono. Il senso di qualsiasi maglietta sta nel vestirci, non ha altra funzione logica una maglietta, eppure noi a cercarne una che parli per noi, che racconti chi siamo noi a chi ci sta intorno. Una maglietta che parli mentre noi di noi non parliamo mai, nemmeno qui, adesso tra amici. Da quanto tempo conosco Ste e quante volte gli ho detto che i suoi sproloqui mi sfiancano eppure non riesco a stare una settimana senza sentirlo, senza sapere cosa gli è successo anche quando so che non gli è successo niente? Occorrerebbe una maglietta per dirglielo, una maglietta con su scritto “Mi annoio a morte con te ma senza te questa vita sarebbe una noia”. La trovassi, gliela potrei regalare. E quella maglietta avrebbe confessato di me più di quanto io abbia confessato a lui. A Carlotta no, lei di me sa tutto e non ho bisogno di magliette che le parlino per me; per lei ci vorrebbe semplicemente una t-shirt che ogni volta che si specchia le ricordi quant’è bella e dolce e fantastica. Lei sa che io lo penso perché glielo dico spesso; eppure non mi crede, e non mi crede perché è lei a non capire quanto davvero è bella e dolce e fantastica. È fatta così, non riesce a prendersi sul serio, a vedersi per com’è fantastica agli occhi miei e degli altri. Cose strane siamo noi umani, che ci facciamo mille paranoie e non ci accettiamo per quello che realmente siamo. Non riusciamo a vedere noi stessi con gli occhi degli altri e siamo convinti che gli altri non ci vedano per come siamo realmente. Carlotta è una ragazza splendida, ha un sorriso che letteralmente illumina il giorno e non riesco a farla convinta di questa semplice assoluta verità. Non dipende da me come non dipende da quello stronzo del suo ex; dipende solo da lei, dall’immagine ingenerosa ed infedele che ha di sé. Non vede quant’è bella dentro e fuori, semplicemente perché quando si guarda non vede quello che oggettivamente è; vede solo le istantanee di ciò che ha fatto o i riflessi di ciò che è stata. E, come facciamo tutti, non si racconta per com’è, ma si racconta per come altri l’hanno raccontata. Che cose strane siamo noi umani; io per primo che sto qui a farmi tutte queste paranoie e a fingere di scegliere una maglietta di cui non mi fotte niente, solo perché qualcuno dei miei amici ha deciso che oggi era la giornata dello shopping, e shopping è stato…
“Allora che fai, la prendi?”
“Cosa?” chiese Marco.
“Come cosa?” sospirò Carlotta. “Quell’orrenda maglietta che stai girando e rigirando da un quarto d’ora…”
“Ma se è orrenda, perché devo prenderla?” replicò Marco, riponendo la t-shirt in cima alla pila da cui l’aveva estratta.
“Oddio, se a te piace, puoi pure prenderla.”
“Ma t’ho detto che è orrenda. Tu piuttosto, trovato qualcosa?”
Carlotta scosse la testa. “Non è proprio giornata. O forse non è proprio il negozio giusto… Proviamo da qualche altra parte.”
Marco si guardò attorno e non troppo distante da loro, nel settore di intimo maschile, vide Stefano. Reclamò la sua attenzione e subito lui li raggiunse. “Dov’è Dario?” gli chiese.
“Ha detto che doveva assolutamente fumare e che ci aspettava fuori” rispose Stefano.
“E figurati, un maschio eterosessuale che rimane dentro un negozio d’abbigliamento più di due minuti…” commentò Carlotta.
“Pure io mi sto annoiando oggi” sospirò lacrimevole Marco.
“Tu oggi hai proprio una giornata di merda: ti si legge in faccia.”
“Qualcosa che non va, gioia mia?” gli domandò Stefano, mentre stavano uscendo dal negozio a mani vuote.
Marco, che non si sentiva affatto diverso dal solito, rispose senza alcuna convinzione: “Qualche rogna di poco conto a lavoro, niente d’insolito.”
“No, amori miei” disse Carlotta, attardandosi solo un istante a guardare un top nero appeso ad una gruccia. “Oggi è sabato e di sabato la parola lavoro è bandita.”
“Ma, a proposito: programmi per il sabato sera, ne abbiamo, tesori vostri?” chiese Marco.
Stefano strinse i pugni e gongolò tutto eccitato. “Certo che sì, ma per te è assolutamente una sorpresa. Assolutamente, non puoi sapere niente fino a sera!”
Marco s’arrestò e lo squadrò di traverso, con uno sguardo che significava Che cazzo stai a dire?
Carlotta lo prese per un braccio e lo trascinò in strada. “T’ha detto che è un sorpresa, e sarà una sorpresa.”
“Assolutamente!” ribadì Stefano, e Marco ebbe l’impressione che stesse addirittura saltellando per l’eccitazione.
“Preso niente?” domandò Dario appena furono in strada. Aveva in mano una sportina con il logo del negozio, e la cosa sorprese tutti e tre i suoi amici. “Cravatte” spiegò. “A lavoro ci hanno chiesto un abbigliamento un po’ più professionale, ed io avevo solo una cravatta blu. Un salto nel mio negozio preferito?” suggerì poi, tagliando corto ed indicando lo store di apparecchi digitali e tecnologici in fondo alla via.
“Ma io non ho preso niente da vestire…” protestò Carlotta.
“C’è tempo dopo” replicò Dario, incamminandosi in tutta fretta. “Voglio dare un’occhiata, ché voglio farmi l’i-pad…” e gli amici ad affrettarsi dietro a lui.
“Pure l’i-pad è per darti un’aria un po’ più professionale?”
“L’i-pad è perché lo necessito, lo desidero fisicamente e voglio possederne uno al più presto…”
Marco, Carlotta e Stefano assecondarono quell’improvvisa pulsione erotica del loro amico, e per tre interi minuti gli stettero stretti ai fianchi mentre Dario faceva scorrere i polpastrelli sullo schermo lucido di una tavoletta digitale, sotto lo sguardo vigile ed al contempo complice di un giovanissimo commesso. Passati i tre minuti, Carlotta e Marco, senza dirsi né dire una parola, s’allontanarono a braccetto e scesero al piano interrato dello store, dove c’erano i reparti libri, musica e home-video.
“Già che siamo qui” disse Carlotta, “potrei cercare un regalo per la Chiaretta, ché a breve mi compie gli anni…”
“Che regalo hai in mente?” domandò Marco.
“Un libro. O un cd. O un film…” rispose lei, grattandosi il mento pensierosa.
“Meraviglioso, tesorissima: siamo proprio nel posto giusto. Se solo potessi restringere ancora un po’ il campo di ricerca…”
“Tu cosa suggerisci?”
“Tu magari ricordami chi è ‘sta Chiaretta…” replicò Marco.
“La Chiaretta, santo il cielo, la conosci anche tu. È venuta al lago con noi un sacco di volte l’anno scorso…”
Marco fece mente locale ma non ricordava nessuna Chiaretta nelle sue domeniche in riva al lago. “L’anno scorso siamo stati al lago insieme, io e te, tre volte, cara la mia amica io-la-domenica-mattina-preferisco-dormire…”
“Ed una di quelle tre volte son sicura ci fosse anche la Chiaretta…”
“Siamo già passati da un sacco di volte a una di quelle tre volte… E l’unica volta che è venuta anche una tua amica trattavasi della Vale.”
“Che c’entra la Vale adesso?”
“Non c’entra niente, appunto. Mi stavi parlando della Chiaretta, che al lago con noi non è mai venuta…”
“C’era quella sera che abbiamo mangiato quella pizza buonissima su quella bellissima terrazza sul lago…”
“Mi ricordo, amore mio dolcissimo. Mi ricordo che me l’hai raccontato perché io non ero venuto.”
“Ma se poi, quella sera, siamo andati tutti in quella squallidissima disco in culo al mondo…”
“Sì sì, mi ricordo. Che me l’hai raccontato perché io non ero venuto.”
“D’accordo. Però la conosci. Stava pure alla festa di compleanno di Dario.”
“Alla festa di compleanno di Dario c’era la galassia intera, tesoro mio.”
“Appunto. E c’era anche la Chiaretta.”
“Quanto ti amo, ma quanto mi sfianchi…” sospirò Marco. “Prendile un libro. Con un libro ci fai sempre una bella figura.”
Carlotta s’avvicinò alla pila delle novità editoriali per poi virare verso lo scaffale dei libri di cucina. “Uno dei libri della Clerici. Alla Chiaretta sta parecchio simpatica la Clerici, ma non mi stupirebbe se li avesse già tutti…”
“Non ho ancora capito chi è, ‘sta Chiaretta, ma son sicuro che mi sta proprio sui coglioni” sentenziò Marco.
“Mi lasci da sola?” bofonchiò lei, mentre lui si allontanava verso il reparto di musica.
“Tu hai questa decisione importantissima – oserei dire vitale – da prendere…” rispose senza fermarsi.
“Ed in questo momento topico, mi lasci da sola, in balia dei miei tormenti? Clerici o Parodi, Parodi o Clerici…” recitò a voce fin troppo alta, richiamando l'interesse dell'intero reparto libri.
Marco, che le uniche partite di pallavolo che aveva seguito in vita sua erano quelle giocate da Mila Hazuki, si fermò appena il tempo per risponderle con il gesto di chi chiama un time-out. Non voleva abbandonare l’amica o prendersi per davvero una pausa da lei. Solo che gli era appena venuto in mente che in quei giorni era uscito il cd di un’artista che tanto apprezzava e voleva dare un’occhiata.
Eccola lì, infatti: Paola Turci sulla copertina del suo album Le storie degli altri, e proprio sull’espositore predisposto per l’ascolto.
Marco indossò le cuffie e premette un paio di tasti. Partì la prima traccia dell’album che aveva selezionato. Un minuto d’assaggio o poco più per ogni brano. E fu sulle note del quinto pezzo – Devi andartene, che peraltro già conosceva –  che Marco si accorse di lui.

L'episodio 1.
L'episodio 4.

lunedì 21 maggio 2012

2. Di Marco e di quella volta che ebbe a raggiungere gli amici in centro

“Dove sei andato, Marco?”
Alla domanda di Carlotta, che improvvisa interruppe il flusso di parole che uscivano dalla bocca di Stefano, Marco sobbalzò sulla sedia.  “Come, scusa?” chiese.
“Ho chiesto dov'eri andato. Avevi lo sguardo completamente assente, da mucca al pascolo. Stavi su tutto un altro pianeta o mi sbaglio?”
“Non mi stavi ascoltando?” domandò Stefano, aggrottando la fronte in segno di disapprovazione.
“Certo che ti stavo ascoltando” rispose Marco. “Fino ad un certo punto, poi sono entrato in stand-by.”
“Tutti entriamo in stand-by quando parli tu, Ste” continuò Dario. “Non è possibile seguire il filo dei tuoi discorsi perché i tuoi discorsi non hanno un filo conduttore...”
“Ma cosa vuol dire?” chiese Stefano, aggrottando la fronte in segno di profondo fastidio.
“Che passi di palo in frasca. Cambi argomento all'improvviso, apri parentesi che non richiudi, confondi nomi e luoghi. Non è possibile fare conversazione con te.”
“Beh, ma se non ti interessava quello che stavo dicendo, non dovevi far altro che entrare nella conversazione e condurla in qualche altra direzione, introducendo qualche nuovo argomento a te più congeniale...”
“Ma ti senti quando parli?” lo interruppe Dario. “Sei assolutamente insopportabile. In-sop-por-ta-bi-le!”
“Mentre loro due litigano” fece Carlotta a Marco, a voce bassa, “mi dici a cosa pensavi?”
I quattro amici stavano seduti comodi attorno al tavolino di un bar che affacciava sulla piazza centrale, con davanti due coppe di gelato, un caffè ed un bicchiere di vino bianco. Era una bella giornata di primavera, il cielo terso, un venticello freddo che di tanto in tanto faceva svolazzare un tovagliolino di carta.
La prima bella giornata della stagione e la piazza ed i bar erano affollati di ragazzini che facevano branco, di coppiette che si tenevano per la mano, di nonni che portavano i nipotini in salvo da una consolle.
E a quel tavolo c'erano loro: Marco, Carlotta, Dario e Stefano. Era stata Carlotta a chiamarli tutti a rapporto, appena aveva deciso che le previsioni meteo avevano mentito e che per quel pomeriggio non si sarebbero visti temporali.
“Ma niente di che” rispose Marco. “M'è venuta in mente la faccia di un tizio che ho incontrato prima sull'autobus...”
“Che faccia aveva?” chiese Carlotta.
“Eh... ma secondo te?”
“Ah! Adesso ho capito. Insomma, era uno piuttosto caruccio...”
“Caruccio...? Sì insomma... sai, il tipo che piace a me.”
“E com'è il tipo che piace a te?” domandò Dario, che evidentemente s'era stancato di stuzzicare Stefano.
“Lo so io com'è il tipo che piace a me” ribatté Marco, che si era accorto di non gradire di portare avanti quel discorso al tavolino di un bar, in mezzo a tante orecchie indiscrete.
“Lo so io” intervenne Stefano. “A Marco piacciono i moraccioni, non tanto alti ma probabilmente piuttosto dotati.”
“E tu che ne sai?”
“Basta prendere in considerazione i suoi ex: tutti con la carnagione ed il pelo scuro, tutti più bassi di lui...”
“E scusami tanto, Ste, ma tu che ne sai di quanto fossero piuttosto dotati i miei ex?” chiese Marco.
Stefano valutò la risposta per qualche attimo, poi replicò: “Con il culo enorme che ti ritrovi, hai evidentemente bisogno di ragazzi piuttosto dotati per divertirti...”
Marco restò muto, come folgorato per la battuta di Stefano.
“Ha ragione Ste. Hai un culo enorme e dovresti smettere di mangiare tutto quel gelato” rincarò la dose Carlotta.
“Ma senti un po' questa!” sghignazzò Marco. “E dimmi, di chi è questa seconda coppa vuota, che un altro po' ti mettevi a leccarla con tutta la lingua pur di non lasciare traccia di cioccolato?”
“A me il gelato si trasforma tutto in tette, ed è bene. A te va tutto sul culo, ed è male. Tanto male.”
Dario prese a ridere sguaiatamente. “Come, come? Ho sentito dire tette? E tu, Carlotta, che ne sai di tette?”
“Guarda che ce le ho anch'io, le tette... da qualche parte...” replicò lei, mettendo in mostra il petto e fingendo di cercare nello scollo della maglietta quel che non appariva evidente.
“E se ce le hai” disse Marco, “portale a spasso ogni tanto, fa' loro vedere un po' il mondo. Non tenerle sempre chiuse a casa in qualche cassetto.” E detto ciò, non seppe trattenersi dal ridere.
Carlotta rideva, ma decise di calarsi nella parte dell'offesa. Si calcò sul naso gli occhiali da sole e cominciò a riporre in borsa sigarette, accendino e quant'altro di suo aveva poggiato sul tavolino.
Stefano si sentiva in dovere di dire qualcosa. “Guarda che gli estimatori del seno prediligono quello piccolo come il tuo fin dai tempi...”
“Ma vaffanculo, Ste!” e con ciò si alzò dal tavolo, troncando sul nascere quel che poteva rivelarsi, nelle intenzioni di Stefano, un interessante excursus storico sull'iconografia del seno e sul desiderio maschile.
Dario e Marco si litigarono lo scontrino, raggiunsero la cassiera e riuscirono a dividersi il conto esattamente a metà. Senza fretta raggiunsero Carlotta e Stefano.
“Dove si va?”
“Guardiamo un po' le vetrine” rispose Carlotta. “E se siamo fortunati, troviamo qualcosa che metta in risalto le mie tette e qualcosa che nasconda il culone di Marco...”

L'episodio 1.
L'episodio 3.

mercoledì 16 maggio 2012

1. Di Marco e di quella volta che ebbe a prendere l'autobus

Le porte gli si spalancarono proprio davanti.
Marco salì sull’autobus e la prima cosa che gli venne naturale di fare fu guardare l’autista per salutarlo con un buon pomeriggio, ma quello non si voltò, guardava la strada dritto davanti a lui, forse, nascosti gli occhi dietro le lenti da sole. Ed il buon pomeriggio di Marco restò solo un incompiuto proposito.
Obliterò il suo biglietto mentre l’autobus riprendeva a muoversi; la ripartenza fu tanto brusca che dovette aggrapparsi forte all’obliteratrice per non cadere, mentre la ragazza che aveva aspettato l’autobus con lui gli franò addosso. L’aveva sentita esclamare “…ca troia!” ed ora gli chiedeva scusa, mentre lui respirava il profumo fruttato di shampoo della sua coda di cavallo castana.
Marco sedette in fretta sul primo seggiolino che trovò libero. L’autista guidava da cani: accelerava e frenava, riaccelerava e di nuovo frenava. Cazzo ti corri? Ché la strada era trafficata e stretta tra due ininterrotte file di auto parcheggiate ai lati.
La ragazza con la coda di cavallo era galoppata in fondo all’autobus. Marco la conosceva; meglio, l’aveva incrociata già un sacco di volte in giro per il suo quartiere, ai giardinetti e al supermercato; pensava anche di sapere dove abitava perché un giorno l’aveva vista uscire dal cancello di un condominio e non poteva certo immaginare che quel giorno era salita al terzo piano di quel palazzo solo per dare ripetizioni di greco.
Al semaforo dell’incrocio con lo stradone che portava in centro, l’autobus inchiodò di brutto e Marco slittò in avanti senza cadere dal seggiolino proprio per poco. Da più d’un passeggero si levarono insulti all’indirizzo dell’autista. Imperterrito. Al verde ripartì senza riguardo alcuno ed un ragazzo che stava in piedi aggrappato ad una maniglia perse la presa, rischiò di cadere a terra e si cavò d’impiccio solo per sbattere subito dopo il naso contro il grugno di un amico più piccoletto.
Felice di essere seduto, Marco si portò la mano alla fronte per nascondere una mezza smorfia. Poi si guardò vanamente attorno e s’accorse di essere osservato. Un ragazzo bruno che sembrava avere la sua stessa età, seduto giusto giusto dall’altro lato del mezzo, lo stava squadrando con un mezzo sorriso.Tanto caruccio, pensò Marco abbassando subito lo sguardo. Contò fino a cinque e con simulata noncuranza controllò e scoprì gli occhi neri del ragazzo ancora puntati fissi su di lui. Ti prego Gesù, fa’ solo che non abbia una qualche caccola che mi penzola dal naso…
Si voltò per guardare fuori, il viale che scorreva via albero dopo albero. Si toccò col dorso della mano la punta del naso che improvvisamente gli prudeva e poi si passò il palmo sui capelli per ravviare una ciocca che cadeva e gli dava noia. Erano ancora lì quei due occhi; neanche quel mezzo sorriso s’era mosso.
Marco guardò l’ora sul display del suo cellulare. Provò a contare i minuti che lo separavano dalla sua fermata e, siccome se l’era già scordata, ricontrollò l’ora sul display. Niente: i conti non gli venivano. Di’ qualcosa o smetti di fissarmi, perdio…
“Sai mica l’ora?”
“Come, scusa?” chiese Marco. Il rumore dell’autobus in movimento era forte e davvero non aveva capito.
“L’ora…?” ripeté il ragazzo dall’altro lato del corridoio. Sorrise ed indicò prima il proprio polso nudo, battendovi due volte il dito, poi il cellulare che Marco teneva in mano.
“Le due e quarantaquattro.”
“Come dici?”
Diosanto, non potevano essere semplicemente le tre? “Le due” pausa “e quaranta” pausa “quattro”. Lo disse cercando di scandire per bene le vocali. Ma il ragazzo rise e fece cenno di no con la testa.
Si sporsero l’uno verso l’altro. Marco tese il braccio per mostrargli il display del cellulare illuminato con le cifre 2:45 belle grandi e con le dita della mano libera compose un due, un quattro ed un altro quattro.
Il ragazzo, che non smetteva un attimo di sorridere, accennò di aver capito finalmente quanto gli aveva chiesto, poi tornò a poggiare spalle e capo contro il finestrino. Anche Marco riassunse la precedente posizione mentre riponeva nella tasca dei pantaloni il telefono. E nessuno dei due smise di guardare l’altro.
Tanta roba per davvero, pensò Marco. Il tizio riassumeva proprio i caratteri del suo tipo ideale. Capelli corti e corvini, carnagione scura, occhi neri come la notte e come la notte pieni di promesse e di mistero.
L’autobus fermò nel piazzale antistante la stazione ferroviaria. Né Marco né il moretto scesero, ma il mezzo si riempì di gente e sembrava che tutti non volessero altro che frapporsi fra loro due. Alla fermata successiva Marco si alzò e cedette il posto ad un donna che teneva un bimbo per mano; si avvicinò alle porte di discesa e lanciò altri sguardi come esche, e lo sconosciuto sembrava abboccare. Dimenticava Marco di essere stato per primo preso all’amo. Ed aveva dimenticato da un pezzo che l’autista guidava da cani. Qualcuno gli pestò pure un piede.
Quando le porte del mezzo si aprirono di nuovo, era ora di scendere. Marco esitò tre interminabili secondi e non sentì il bamboccio che alle spalle gli borbottò “Allora, te ne scendi o mi lasci scendere?”.
Scese in strada, nella piazzetta davanti il castello. Si voltò indietro e del ragazzo moro ora vedeva solo la nuca. Peccato tu non sia sceso….
E non gli passò per la mente che in quel momento qualcun altro stava pensando Peccato tu sia sceso…

L'episodio 2.

lunedì 7 maggio 2012

LUna

Solo stamattina è nata e già ha compiuto la sua prima magia, portando il sole e la primavera in questo grigio maggio. Ancora non abbiamo capito se si tratta di una fatina o di una streghetta: il completino rosa confetto che mamma LadyVina le ha fatto indossare potrebbe anche mascherare demoniache sembianze, per quanto ne so, e in effetti non riesce a celare i taglienti artiglietti...
Comunque sia, TopO, appena promosso a Fratello Maggiore, va orgogliosissimo della sorellina, pretende di tenersela stretta in grembo e non la molla un attimo. Una malalingua sostiene che è un modo per nascondere la gelosia e per tenere la piccola lontana dalle braccia di mamma e papà, ma noi non diamo bado alle malelingue.
Ho meditato e soppesato a lungo con quale nome battezzare la mia prima nipotina, che da perfetta Diva s'è fatta attendere una settimana più del previsto. La chiameremo LUna, proprio perché è la prima nipotina [La numero UNA] e probabilmente sarà la sola [L'UNicA] donna cui dirò sempre sì.

martedì 1 maggio 2012

Domani arriverà lo stesso

Guarda qua, son due settimane che non pubblico un post, addirittura un mese che non racconto di quel che mi capita... E non che non sia successo nulla in queste settimane. Solo che non mi va di parlarne qui. Non mi va di parlare, punto.
Mi sento schifato. Schifato nel senso passivo del termine, anche se passivo un senso non ce l'ha...
Schifato nel senso che ho come l'impressione che un po' tutto il mondo, tutto l'universo, abbia schifo di me. E non è una bella sensazione.