martedì 24 febbraio 2009

Malade, je suis malade

“Tu sei malato!”.
Lo si dice spesso con disprezzo misto a rabbia, lo si grida in una lite in faccia a chi ci sta facendo del male, lo si insinua a chi sostiene tesi che non vogliamo condividere. Dare del malato a qualcuno, salvo che si tratti d’influenza o varicella, spesso significa volerlo annientare; talvolta equivale ad incolparlo di qualcosa di talmente brutto ed assurdo che ci riesce impossibile accettare che nasca da una mente sana e normale. Il termine malato ha un’accezione fin troppo negativa, esageratamente negativa, soprattutto all’interno di quelle culture che nei secoli hanno troppo spesso associato la malattia al castigo divino, come quella europea imperniata di uno stravolgimento degli insegnamenti evangelici.
In tempi più o meno recenti, per combattere (solo a parole) un pregiudizio ormai innato, si è addirittura cercato di introdurre nel vocabolario italiano nuove terminologie, per nascondere la malattia dietro una parafrasi: cosicché il cieco è diventato non vedente, il sordo non udente, l’handicappato s’è trasformato in diversamente abile. Iniziativa politicamente corretta ma assai ipocrita, perché, invece che cercare di abbattere un pregiudizio, gli passa accanto guardando oltre.
Qualche settimana fa, in non ricordo quale salotto televisivo, i soliti noti disquisivano del Grande Fratello e del primo concorrente con handicap all’interno della Casa [sia letto con l’inconfondibile dizione della Bignardi]: parole e parole spese a predicare quanto la cecità del ragazzo sia tutt’altro che da compatire, poi, quando una delle ospiti rimarca la pesantezza dei discorsi spesso portati avanti dal concorrente, fin troppo seri se rapportati all’ambito dello sbracato programma televisivo, la cara Flavia Vento (un nome, una garanzia) drizza la schiena ed impettita replica: “Eh no, non si può dare del noioso ad un non vedente… poverino…”. Ipocrisia mista a pietismo tale che vien da chiedersi se non sia proprio la Vento ad aver ispirato un ormai storico numero di satira di Caterina Guzzanti, che, ai microfoni di Radio2, metteva in bocca ad una miss Italia candidata in politica: “Io non ho nulla contro gli omosessuali… anzi, io ho tanti amici gay… poracci…”
Noi italiani, purtroppo, l’abbiamo ormai marchiato a fuoco nel DNA: non possiamo fare a meno di considerare la diversità (in ogni sua forma) come una malattia, e la malattia come una tara, un fardello, talvolta perfino una colpa. E chi ce l’ha inculcato nel cervello…?
Pecore nere, mosche bianche: un fattore genetico, che distingue dalla norma un individuo, peraltro sanissimo, diventa un castigo cui, laddove non lo si possa combattere, non se ne possa guarire, s’ha da guardare con commiserazione e pietismo, sentimenti sterili che ormai ben poco hanno da spartire con la compassione e la pietà attive che nei Vangeli s’invitava a rivolgere nei confronti dei peccatori.
La diversità è diventata una malattia, e la malattia è stata trasformata in colpa. Ed il cerchio si chiude quando a sentirsi in difetto sono quelli al di fuori della normalità statistica…
Esemplare forse il caso della canzone piazzatasi al secondo posto al 59° Festival di Sanremo [si apprezzi la perifrasi utilizzata apposta, e pertanto ipocrita, per non nominare né il titolo del brano né l’autore]. Tanto rumore per nulla. Un motivetto orecchiabile ed accattivante, accompagnato da un testo mediocre e pieno di luoghi comuni, che non ha alcun valore artistico e, nel bene o nel male, racconta una storia verosimile, se non vera, ma individuale. Non si tratta di una lezione di vita, di un invito a scegliere un corretto (e sano) percorso di vita: lo spocchioso e furbetto autore, se anche ne avesse avute le pretese, non possiede alcuna capacità per trasformare una storiella patetica in un’opera moraleggiante (prova ne è il ricorso a cartelli, ad ogni fine d’esibizione, con le massime più banali e qualunquiste che si siano lette dopo la Cantica di LaPalisse). Ed il successo riscontrato, gli applausi, solo in parte modesta, forse minima, sono dovuti alla (seppur diffusa) condanna di uno stile di vita diverso da quello che il cattolicesimo insegna e pretende. Il motivo musicale è orecchiabile, tutto qui: una melodia facile in mezzo a tanti brani con maggiori pretese artistiche ma difficili a farsi canticchiare.
Forse è, piuttosto, a causa del disagio che alcuni sentono connaturato nella propria condizione di omosessuali, che essi percepiscono questo successo come una sconfitta per la campagna di sensibilizzazione nei confronti dell’omosessualità.
Ma noi omosessuali non siamo malati, non abbiamo alcun bisogno di sensibilizzare, di muovere a pietà i normali, per ottenere da loro i diritti che ancora non ci vengono riconosciuti. I diritti che ci spettano, dobbiamo rivendicarli con la forza ed il coraggio, dobbiamo pretenderli, e finirla di commiserarci e farci commiserare. Certo, c’è prima da sconfiggere ed annientare una convinzione diffusa, capillare e quasi congenita: la diversità non è una malattia.
A tal punto in Italia è radicata tale aberrazione logica, che c’è chi si chiede (ed in internet c’è chi interroga Google per sapere) se Arisa, la vincitrice timida e naif della sezione Proposte, sia affetta da sindrome di Down o da un ritardo mentale. Perché qui in Italia, esseri fuori dagli schemi, essere non conformi alla norma deve per forza di cose essere dovuto ad una malattia.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Se a ciascun l'interno affanno
si leggesse in fronte scritto,
quanti mai, che invidia fanno,
ci farebbero pietà!
Si vedria che i lor nemici
hanno in seno; e si riduce
nel parere a noi
felici ogni lor felicità.

Thrasùs ha detto...

(se Gan può citare, lo faccio anch'io!)

Felice chi è diverso
essendo egli diverso.
Ma guai a chi è diverso
essendo egli comune.

(grazie per regalarci queste tue graffianti riflessioni... sono sempre stupende)

Edgar ha detto...

...ed io ho già dato il meglio di me citando Flavia Vento...non so se devo aggiungere altro... :p