Una volta, da bambino, restai con la testa incastrata in un cancello.
Ero lì a rigirarmi nel letto iersera e non riuscivo a prendere sonno quando, non so più per quale passaggio di un flusso di coscienza, mi si accende il ricordo di quell'esperienza; più che altro, mi torna vivida la sensazione che provai, di essermi ficcato in un guaio senza colpa d'altri che la mia e di essere lì esposto al pubblico ludibrio come in una gogna medievale.
Non ricordo quanti anni avessi, non riesco proprio a datare il fatto. Accadde nel giardino di un'anziana amica di mia madre, che ora non c'è più, e forse oggi non c'è più nemmeno il giardino. In un angolo c'era questa bellissima palizzata di legno, dipinta di color mattone e ricoperta di grandi rose, ed io e mia sorella -chissà più quale gusto ci provassimo- da tempo immemore ci sfidavamo ad infilare le teste tra un palo e l'altro per sbirciare oltre, nel giardino dei vicini. Solo che, con il passare degli anni, noi e le nostre teste crescevamo, non così gli spazi tra un paletto e l'altro. E toccò a me infilare la testa per l'ultima volta e scoprire di non riuscire più a liberarmi agilmente. Naturale poi che, se infili qualcosa in un buco, come c'è entrata se ne esce; ma per un po' non riuscii a trovare la giusta angolazione e nonostante gli sforzi la palizzata non mi restituiva la libertà. Mia sorella andò a chiamare mia madre e la padrona di casa, che stavano dentro a sorbirsi il caffè, ed io insistevo per liberarmi prima che venissero a tirami fuori. Alla fine, ebbi la meglio sul cancello, ma non prima che mia madre s'affacciasse alla porta e mi vedesse, e lanciasse il suo grido di rimprovero.
Un'altra volta, databile stavolta con certezza prima dell' '85, l'anno del trasloco, giocavo con mia sorella nel giardino della mia prima casa, ognuno su un'automobile a pedali su cui entrambi faticavamo già a sfrecciare. Ed ad un certo punto mi venne in mente di simulare un incidente d'auto come quelli che vedevo in tivù, nelle puntate dei CHiPs. Afferrai i lati della mia macchina e, con studiata lentezza (un po' per imitare l'effetto slow motion dei telefilm, un po' per non farmi male, ma soprattutto per non sporcarmi d'erba i vestiti) mi rovesciai su di un fianco e mi finsi privo di sensi per terra. Mentre mia sorella mi contemplava ammirata, la vicina di casa, affacciatasi al balcone giusto giusto in quel momento, con il suo marcatissimo accento umbro-marchigiano, prese a chiamare mia madre per nome (e, per una precisa ragione, quasi sembrava invocasse la Madonna), perché anche lei s'affacciasse e scendesse a vedere se m'ero davvero fatto male. Ricordo perfettamente quegli istanti, io ostinatamente immobile nel prato, il profumo dell'erba ed il tepore della terra morbida, mentre pensavo a quanto ingenua -ma non era la parola che pensai allora- fosse la signora N. a non accorgersi della mia finzione, ed al contempo mi rallegravo delle mie evidenti e spiccate doti recitative. Fino all'urlo di rimprovero di mamma.
Mi sono sforzato, eppure questi sono gli unici due episodi della mia infanzia che ricordo, senza avere l'ausilio di una qualche fotografia scolorita dal tempo.
3 commenti:
ma quanto è bella l'infanzia spregiudicata??? io ne ho fin troppi di ricordi ai limiti della legalità e della fantasia possibile...che poi, considerandomi ancora un nino fino all'altro giorno ho fatto quella cosa che....
TI AMO!!!
Che amore! *_*
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