mercoledì 24 ottobre 2012

Gocce di memoria

Stamattina scendo in strada in leggero ritardo sulla tabella di marcia e faccio per salire in auto per raggiungere il mio posto di lavoro. Le luci dell’apertura centralizzata dell'auto fanno sobbalzare l’anziana signora che mi sta passando alle spalle. Mi volto per chiederle perdono con un sorriso un po' tirato ed allora lei mi spiega che quelle luci le hanno ricordato la guerra. Dice che le capita tutte le volte: i fanali delle auto, il rombare dei motori le ricordano i bombardamenti. 
Lei durante la guerra era una bambina, ma i bombardamenti aerei degli Alleati sui cieli sopra Verona li ricorda benissimo. Certe notti, il silenzio veniva interrotto dai comandi urlati in tedesco nella caserma vicina, che preannunciavano le sirene della contraerea. Allora lei e i bambini del quartiere dovevano correre al bunker, che in realtà non era altro che una grossa buca scavata in un terreno che serviva a poco altro che a proteggerli dalle schegge di una qualche esplosione purché non troppo vicina. Le era sempre andata bene. Qualche volta, confidando nella distanza dal centro della città, che era il vero obiettivo dei raid, era uscita allo scoperto per guardare gli aerei, per intuirne nel buio le meravigliose acrobazie, certi voli verticali per evitare i colpi della contraerea. Gli aerei degli Alleati nei cieli di Verona erano uno spettacolo, meraviglioso e terribile allo stesso tempo. 
Mi dice che una notte nel buio intravvide un paracadutista: immagino che il suo aereo fosse stato colpito e lui si fosse lanciato per mettersi in salvo. Qualche anno dopo la guerra, una ragazza più grande che lavorava con lei, le aveva raccontato di aver trovato quel paracadutista inglese nascosto in un campo di granturco; per due giorni era passata davanti al campo facendo finta di non vederlo, ma il terzo giorno lo vide addentare una pannocchia e capì che doveva avere parecchia fame. Attese la notte e lo raggiunse; lui parlava un italiano stentato ma si faceva comprendere; lei lo portò a casa sua sperando che nessuno li vedesse e la sua famiglia offrì al soldato un pasto caldo. Il giorno dopo un fascista e due tedeschi bussarono prepotentemente alla loro porta: trascinarono in strada il soldato inglese ed il fratello diciottenne della ragazza e fucilarono entrambi. 
La donna ricorda che un giorno suo fratello le aveva parlato di un libro che stava leggendo, le memorie di un ex soldato tedesco; vi era scritto che per gli italiani fu una enorme fortuna che i tedeschi avessero perso la guerra, perché se così non fosse stato, quelli che non fossero stati ammazzati dai tedeschi, sarebbero stati uccisi da qualche parente o da un vicino fascista: gli italiani erano un popolo senza onore né dignità, e si facevano la spia l’un contro l’altro pur di arruffianarsi un nazista. E per farmi intendere che quel crucco non sbagliava mi racconta di quando suo fratello, un bimbetto più piccolo di lei, giocando con gli altri bambini a lanciar sassi, colpì accidentalmente la finestra di un deposito militare dei tedeschi, mandandola in frantumi. Tutto il vicinato si riunì: bisognava trovare il colpevole e consegnarlo ai tedeschi. E qualche giorno dopo i fascisti si presentarono alla porta di casa sua, pretendendo in consegna il piccolo colpevole. Quella volta andò bene: il padre riportò tutti quei vigliacchi alla ragione facendo presente che si trattava del gioco di un bambino e non di un atto di spregio, perché un bambino non poteva avere in corpo la rabbia che aveva lui che aveva fatto la Grande Guerra ed aveva trascorso tre anni al fronte per una Patria che ora gli chiedeva di sacrificare un figlio ai tedeschi; si offrì di staccare il vetro da una finestra di casa perché lo adoperassero per riparare il vetro rotto, e l'allarme rientrò così. 
Gli italiani che aderivano al fascismo erano tremendi, dei vigliacchi farabutti: ladri, li chiama lei. Quando a Natale Mussolini mandava i pacchi alle famiglie numerose, a casa sua arrivavano solo sacchetti di riso, lenticchie, farina. Ma una volta la moglie del capo di quartiere la chiamò in disparte mentre giocava in casa sua con sua figlia, e la portò in dispensa: era piena di bottiglie d'olio, di sacchetti di caffè e di pacchi di zucchero, e nonostante fosse solo una bambina lei capì subito che tutta quella roba era stata sottratta ai pacchi del duce; la donna le riempì le braccia, raccomandandosi di non farsi vedere da nessuno sennò sarebbero state legnate per entrambe. 
Finita la guerra, quelli che erano stati tanto prepotenti, nonostante le ruffianate ed i tradimenti, non facevano più tanto i gradassi; eppure sembravano non vergognarsi: non si nascondevano, circolavano per strada e salutavano i vicini che avevano vessato come nulla fosse stato, senza timore di ritorsioni. Fosse stato per lei, mi dice, sarebbe stato da andare a bussare alle loro porte a tutte le ore del giorno e soprattutto di notte, per far loro provare la paura. Ma allora lei era ancora solo una ragazzina e gli adulti non sembravano intenzionati a vendicarsi, quasi avessero timore che il fato tornasse prima o poi a farsi avverso, come se non avessero patito abbastanza. O forse, chissà, credevano che anche i più farabutti tra i farabutti venissero nottetempo tormentati già abbastanza dall'ululato dei fantasmi e delle coscienze. 
Ha gli occhi lucidi la mia vecchia signora quando finisce i suoi racconti. Se ne va ringraziandomi per averle prestato ascolto ed io la ringrazio a mia volta: per il dono che mi ha fatto, per questi ricordi che metto per iscritto perché non vadano perduti. Perché il DNA degli italiani è ancora quello, ho paura, e sia mai che un giorno...

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