Le porte gli si spalancarono proprio davanti.
Marco salì sull’autobus e la prima cosa che gli
venne naturale di fare fu guardare l’autista per salutarlo con un buon
pomeriggio, ma quello non si voltò, guardava la strada dritto davanti a
lui, forse, nascosti gli occhi dietro le lenti da sole. Ed il buon
pomeriggio di Marco restò solo un incompiuto proposito.
Obliterò il suo biglietto mentre l’autobus
riprendeva a muoversi; la ripartenza fu tanto brusca che dovette aggrapparsi
forte all’obliteratrice per non cadere, mentre la ragazza che aveva aspettato
l’autobus con lui gli franò addosso. L’aveva sentita esclamare “…ca troia!” ed
ora gli chiedeva scusa, mentre lui respirava il profumo fruttato di shampoo
della sua coda di cavallo castana.
Marco sedette in fretta sul primo seggiolino
che trovò libero. L’autista guidava da cani: accelerava e frenava, riaccelerava
e di nuovo frenava. Cazzo ti corri? Ché la strada era
trafficata e stretta tra due ininterrotte file di auto parcheggiate ai lati.
La ragazza con la coda di cavallo era galoppata
in fondo all’autobus. Marco la conosceva; meglio, l’aveva incrociata già un
sacco di volte in giro per il suo quartiere, ai giardinetti e al supermercato;
pensava anche di sapere dove abitava perché un giorno l’aveva vista uscire dal
cancello di un condominio e non poteva certo immaginare che quel giorno era
salita al terzo piano di quel palazzo solo per dare ripetizioni di greco.
Al semaforo dell’incrocio con lo stradone che
portava in centro, l’autobus inchiodò di brutto e Marco slittò in avanti senza
cadere dal seggiolino proprio per poco. Da più d’un passeggero si levarono
insulti all’indirizzo dell’autista. Imperterrito. Al verde ripartì senza
riguardo alcuno ed un ragazzo che stava in piedi aggrappato ad una maniglia perse
la presa, rischiò di cadere a terra e si cavò d’impiccio solo per sbattere
subito dopo il naso contro il grugno di un amico più piccoletto.
Felice di essere seduto, Marco si portò la mano
alla fronte per nascondere una mezza smorfia. Poi si guardò vanamente attorno e
s’accorse di essere osservato. Un ragazzo bruno che sembrava avere la sua
stessa età, seduto giusto giusto dall’altro lato del mezzo, lo stava squadrando
con un mezzo sorriso.Tanto caruccio, pensò Marco abbassando subito lo
sguardo. Contò fino a cinque e con simulata noncuranza controllò e scoprì gli
occhi neri del ragazzo ancora puntati fissi su di lui. Ti prego Gesù,
fa’ solo che non abbia una qualche caccola che mi penzola dal naso…
Si voltò per guardare fuori, il viale che
scorreva via albero dopo albero. Si toccò col dorso della mano la punta del
naso che improvvisamente gli prudeva e poi si passò il palmo sui capelli per
ravviare una ciocca che cadeva e gli dava noia. Erano ancora lì quei due occhi;
neanche quel mezzo sorriso s’era mosso.
Marco guardò l’ora sul display del suo
cellulare. Provò a contare i minuti che lo separavano dalla sua fermata e,
siccome se l’era già scordata, ricontrollò l’ora sul display. Niente: i conti
non gli venivano. Di’ qualcosa o smetti di fissarmi, perdio…
“Sai mica l’ora?”
“Come, scusa?” chiese Marco. Il rumore
dell’autobus in movimento era forte e davvero non aveva capito.
“L’ora…?” ripeté il ragazzo dall’altro lato del
corridoio. Sorrise ed indicò prima il proprio polso nudo, battendovi due volte
il dito, poi il cellulare che Marco teneva in mano.
“Le due e quarantaquattro.”
“Come dici?”
Diosanto, non potevano essere semplicemente le
tre? “Le due” pausa “e
quaranta” pausa “quattro”. Lo disse cercando di scandire per bene le vocali. Ma
il ragazzo rise e fece cenno di no con la testa.
Si sporsero l’uno verso l’altro. Marco tese il
braccio per mostrargli il display del cellulare illuminato con le cifre 2:45 belle
grandi e con le dita della mano libera compose un due, un quattro ed
un altro quattro.
Il ragazzo, che non smetteva un attimo di
sorridere, accennò di aver capito finalmente quanto gli aveva chiesto, poi
tornò a poggiare spalle e capo contro il finestrino. Anche Marco riassunse la
precedente posizione mentre riponeva nella tasca dei pantaloni il telefono. E
nessuno dei due smise di guardare l’altro.
Tanta roba per davvero, pensò Marco. Il tizio riassumeva proprio i
caratteri del suo tipo ideale. Capelli corti e corvini, carnagione scura, occhi
neri come la notte e come la notte pieni di promesse e di mistero.
L’autobus fermò nel piazzale antistante la
stazione ferroviaria. Né Marco né il moretto scesero, ma il mezzo si riempì di
gente e sembrava che tutti non volessero altro che frapporsi fra loro due. Alla
fermata successiva Marco si alzò e cedette il posto ad un donna che teneva un
bimbo per mano; si avvicinò alle porte di discesa e lanciò altri sguardi come
esche, e lo sconosciuto sembrava abboccare. Dimenticava Marco di essere stato
per primo preso all’amo. Ed aveva dimenticato da un pezzo che l’autista guidava
da cani. Qualcuno gli pestò pure un piede.
Quando le porte del mezzo si aprirono di nuovo,
era ora di scendere. Marco esitò tre interminabili secondi e non sentì il
bamboccio che alle spalle gli borbottò “Allora, te ne scendi o mi lasci scendere?”.
Scese in strada, nella piazzetta davanti il
castello. Si voltò indietro e del ragazzo moro ora vedeva solo la nuca. Peccato
tu non sia sceso….
E non gli passò per la mente che in quel
momento qualcun altro stava pensando Peccato tu sia sceso…
L'episodio 2.
L'episodio 2.
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