lunedì 12 novembre 2012

La fine di ogni favola è l'inizio di una storia


...Abbracciando il suo ritrovato Amore, Psyche sospirò: "Quante sofferenze, quante umiliazioni mi sarei risparmiata se tu mi avessi fatto sapere che infine ci saremmo ritrovati qui. Tu che sei un dio, avresti potuto rendere il lieto fine più facile".
"Sarebbe stato troppo facile" ammonì Amore.
"Sì, lo so ma lo scordo sempre" rispose Psyche "che sei un nano bastardo..."

mercoledì 24 ottobre 2012

Gocce di memoria

Stamattina scendo in strada in leggero ritardo sulla tabella di marcia e faccio per salire in auto per raggiungere il mio posto di lavoro. Le luci dell’apertura centralizzata dell'auto fanno sobbalzare l’anziana signora che mi sta passando alle spalle. Mi volto per chiederle perdono con un sorriso un po' tirato ed allora lei mi spiega che quelle luci le hanno ricordato la guerra. Dice che le capita tutte le volte: i fanali delle auto, il rombare dei motori le ricordano i bombardamenti. 
Lei durante la guerra era una bambina, ma i bombardamenti aerei degli Alleati sui cieli sopra Verona li ricorda benissimo. Certe notti, il silenzio veniva interrotto dai comandi urlati in tedesco nella caserma vicina, che preannunciavano le sirene della contraerea. Allora lei e i bambini del quartiere dovevano correre al bunker, che in realtà non era altro che una grossa buca scavata in un terreno che serviva a poco altro che a proteggerli dalle schegge di una qualche esplosione purché non troppo vicina. Le era sempre andata bene. Qualche volta, confidando nella distanza dal centro della città, che era il vero obiettivo dei raid, era uscita allo scoperto per guardare gli aerei, per intuirne nel buio le meravigliose acrobazie, certi voli verticali per evitare i colpi della contraerea. Gli aerei degli Alleati nei cieli di Verona erano uno spettacolo, meraviglioso e terribile allo stesso tempo. 
Mi dice che una notte nel buio intravvide un paracadutista: immagino che il suo aereo fosse stato colpito e lui si fosse lanciato per mettersi in salvo. Qualche anno dopo la guerra, una ragazza più grande che lavorava con lei, le aveva raccontato di aver trovato quel paracadutista inglese nascosto in un campo di granturco; per due giorni era passata davanti al campo facendo finta di non vederlo, ma il terzo giorno lo vide addentare una pannocchia e capì che doveva avere parecchia fame. Attese la notte e lo raggiunse; lui parlava un italiano stentato ma si faceva comprendere; lei lo portò a casa sua sperando che nessuno li vedesse e la sua famiglia offrì al soldato un pasto caldo. Il giorno dopo un fascista e due tedeschi bussarono prepotentemente alla loro porta: trascinarono in strada il soldato inglese ed il fratello diciottenne della ragazza e fucilarono entrambi. 
La donna ricorda che un giorno suo fratello le aveva parlato di un libro che stava leggendo, le memorie di un ex soldato tedesco; vi era scritto che per gli italiani fu una enorme fortuna che i tedeschi avessero perso la guerra, perché se così non fosse stato, quelli che non fossero stati ammazzati dai tedeschi, sarebbero stati uccisi da qualche parente o da un vicino fascista: gli italiani erano un popolo senza onore né dignità, e si facevano la spia l’un contro l’altro pur di arruffianarsi un nazista. E per farmi intendere che quel crucco non sbagliava mi racconta di quando suo fratello, un bimbetto più piccolo di lei, giocando con gli altri bambini a lanciar sassi, colpì accidentalmente la finestra di un deposito militare dei tedeschi, mandandola in frantumi. Tutto il vicinato si riunì: bisognava trovare il colpevole e consegnarlo ai tedeschi. E qualche giorno dopo i fascisti si presentarono alla porta di casa sua, pretendendo in consegna il piccolo colpevole. Quella volta andò bene: il padre riportò tutti quei vigliacchi alla ragione facendo presente che si trattava del gioco di un bambino e non di un atto di spregio, perché un bambino non poteva avere in corpo la rabbia che aveva lui che aveva fatto la Grande Guerra ed aveva trascorso tre anni al fronte per una Patria che ora gli chiedeva di sacrificare un figlio ai tedeschi; si offrì di staccare il vetro da una finestra di casa perché lo adoperassero per riparare il vetro rotto, e l'allarme rientrò così. 
Gli italiani che aderivano al fascismo erano tremendi, dei vigliacchi farabutti: ladri, li chiama lei. Quando a Natale Mussolini mandava i pacchi alle famiglie numerose, a casa sua arrivavano solo sacchetti di riso, lenticchie, farina. Ma una volta la moglie del capo di quartiere la chiamò in disparte mentre giocava in casa sua con sua figlia, e la portò in dispensa: era piena di bottiglie d'olio, di sacchetti di caffè e di pacchi di zucchero, e nonostante fosse solo una bambina lei capì subito che tutta quella roba era stata sottratta ai pacchi del duce; la donna le riempì le braccia, raccomandandosi di non farsi vedere da nessuno sennò sarebbero state legnate per entrambe. 
Finita la guerra, quelli che erano stati tanto prepotenti, nonostante le ruffianate ed i tradimenti, non facevano più tanto i gradassi; eppure sembravano non vergognarsi: non si nascondevano, circolavano per strada e salutavano i vicini che avevano vessato come nulla fosse stato, senza timore di ritorsioni. Fosse stato per lei, mi dice, sarebbe stato da andare a bussare alle loro porte a tutte le ore del giorno e soprattutto di notte, per far loro provare la paura. Ma allora lei era ancora solo una ragazzina e gli adulti non sembravano intenzionati a vendicarsi, quasi avessero timore che il fato tornasse prima o poi a farsi avverso, come se non avessero patito abbastanza. O forse, chissà, credevano che anche i più farabutti tra i farabutti venissero nottetempo tormentati già abbastanza dall'ululato dei fantasmi e delle coscienze. 
Ha gli occhi lucidi la mia vecchia signora quando finisce i suoi racconti. Se ne va ringraziandomi per averle prestato ascolto ed io la ringrazio a mia volta: per il dono che mi ha fatto, per questi ricordi che metto per iscritto perché non vadano perduti. Perché il DNA degli italiani è ancora quello, ho paura, e sia mai che un giorno...

lunedì 24 settembre 2012

Elisa - QUALCOSA CHE NON C’È

(testo e musica di Elisa Toffoli)




Tutto questo tempo a chiedermi cos’è che non mi lascia in pace
Tutti questi anni a chiedermi se vado veramente bene così come sono, così
Così un giorno ho scritto sul quaderno: io farò sognare il mondo con la musica
Non molto tempo dopo, quando mi bastava fare un salto per raggiungere la felicità
E la verità è che

Ho aspettato a lungo qualcosa che non c’è
Invece di guardare il sole sorgere

Questo è sempre stato un modo per fermare il tempo e la velocità
I passi svelti della gente, la disattenzione, le parole dette senza umiltà
Senza cuore, così solo per far rumore

Ho aspettato a lungo qualcosa che non c’è
Invece di guardare il sole sorgere

E miracolosamente non ho smesso di sognare
Miracolosamente non riesco a non sperare

E se c’è un segreto è fare tutto come se vedessi solo il sole
Un segreto è fare tutto come se
Fare tutto come se vedessi solo il sole
E non qualcosa che non c’è

giovedì 20 settembre 2012

Dicono che me lo merito

Dicono di me che sono eccessivamente egoista ed egocentrico, e per tale ragione è ovvio che io sia solo (da intendersi come zitello). E me lo ha detto uno con cui condivido qualche caffè ed il tavolo in mensa, nient'altro. Non dovrebbe esserci motivo perché faccia tanto male. Tanto più che un testimone dell'evento sostiene che sbaglio ad essermela presa, che si trattava solo di una battuta senz'alcuna cattiveria, tutt'al più una malizia non voluta e pertanto veniale...
Lì per lì mi sono semplicemente zittito, incapace di replicare con la medesima veniale cattiveria. Poi ho ripreso tranquillamente la mia giornata, il mio lavoro, i miei colloqui. Solo quando è scesa la sera e tutte le voci attorno a me si sono smorzate, allora sono stato raggiunto dall'implacabile ronzio inviperito della mia coscienza, offesa a morte.
Solo una battuta? Davvero...?
Se io andassi da qualcuno che sta affrontando in quel momento la separazione e gli dicessi che porta sempre delle cravatte orribili e perciò la moglie fa bene a chiedere il divorzio, la mia sarebbe chiaramente una battuta, ma venir ripagato con un occhio nero, credo che sarebbe il minimo sindacale.
Non è che con l'alibi del paradosso deve essere lecito dire qualsiasi nefandezza. Certi argomenti personali dovrebbero essere trattati con i guanti di velluto.
Poi sarà che sono solo, sarà che un tantinello egocentrico mi ci sento, sarà che ogni tanto mi chiedo cosa c'è di sbagliato in me e perché non riesca a farmi amare... ma no, non riesco ad archiviare quella frase né a farmi  una ragione dell'assenza di compassione del subumano che l'ha pronunciata.

domenica 16 settembre 2012

20. Di Marco e di tutte quelle volte (La formula magica)

La volta che Andrea convinse Marco a trascorrere una domenica in bicicletta sulle colline e scoppiò un temporale che li costrinse a trascorrere tre ore bagnati fradici sotto un cavalcavia.
La volta che parteciparono insieme ad una serata-karaoke e duettarono in una canzone di Pacifico e Malika Ayane, e quando tornarono al loro tavolo trovarono Carlotta in lacrime.
La volta che Davide sfidò Marco ad una partita di pallone ed il bambino gli piantò il muso perché lo spilungone era un portiere troppo forte per i suoi rigori.
La prima volta che Davide si addormentò in braccio a Marco.
La volta che Linda, la madre di Davide, invitò Marco a cena, loro due soli, e per tutta la serata Marco ebbe la sensazione che Linda si chiedesse che cosa trovasse Andrea in lui che non aveva trovato in lei, ma mentre mangiavano il dessert aveva fatto una battuta atroce ed allora avevano cominciato entrambi a ridere di cuore, tanto che alla fine Linda l’aveva salutato con un sorriso ed un abbraccio tali che lui aveva capito di aver guadagnato un’amica.
La volta che Marco ed Andrea erano stati interrotti da una telefonata perché la madre di Andrea era caduta dalle scale di casa e, mentre raggiungevano l’ospedale che ancora non conoscevano la diagnosi, Marco vide per la prima volta Andrea piangere.
La volta che il padre di Andrea s’era presentato a sorpresa a casa di Marco perché l’aveva sentito dire che aveva il citofono guasto e gliel’aveva aggiustato, poi s’era fermato fino a tarda sera a parlare con lui.
La volta che portarono Davide sulla seggiovia che collega il lago alla montagna, ed il bambino che correva, occhioni spalancati, da una parte all’altra della cabina per vedere il lago che rimpiccioliva e la montagna che ingigantiva.
La volta che Marco aveva sentito in radio la voce di Andrea che aveva chiamato per dedicargli una canzone.
La volta del loro primo weekend romantico in laguna e la loro prima volta insieme alle terme.
E poi ci fu quella volta che Andrea gli chiese di andare a vivere con lui, un mercoledì sera che avevano trascorso insieme in casa di Andrea e che sembrava essere sul punto di concludersi senz’infamia e senza lode: Marco s’era addormentato sul divano, con la testa in grembo ad Andrea, che invece aveva provato a seguire il pilot di un nuovo telefilm, senza troppo successo perché quella sera aveva un solo chiodo fisso.
Si chinò sul faccino di Marco, gli passò un dito sulle labbra schiuse, lo baciò lieve sulla fronte ed all’orecchio gli sussurrò: “È ora di svegliarsi, Biancaneve…”
“Che ore sono?” domandò Marco senza muoversi e senza nemmeno aprire gli occhi.
“È ora che tu ti levi e che io mi alzi dal divano, perché non sento più circolazione dalla vita in giù…”
Marco si tirò su a sedere e, tastandosi con il dorso della mano l’angolo della bocca, chiese: “Ti ho sbavato addosso?”
Andrea sorrise e gli fece cenno di no. Poi si issò in piedi e spense il televisore. “Non hai sbavato e non hai nemmeno russato, neanche un poco. Quando dormi sembri una creatura angelica… Poi purtroppo ti svegli…”
“Fosse stato per me, avrei continuato a dormire” rispose Marco stiracchiandosi, poi guardò l’orologio. “Tra l’altro è ancora presto. Vuoi già mandarmi a casa…?”
“No. È solo che stavo pensando ad una cosa…”
“Oh no, un’altra rivelazione? Credevo di sapere tutto ormai. Che c’è, hai un fratello gemello nascosto da qualche parte? Hai scoperto di essere stato scambiato alla nascita e di essere uno dei figli dei Pooh…?”
“Te l’ho già detto che quando dormi sembri un angelo…?”
Marco rise. “Sì. Ma adesso sono sveglio. E ci siamo già passati: diventi insopportabile quando hai qualcosa che ti costa dire. È meglio se la dici subito e se ti levi il pensiero.”
Andrea tornò a sedersi sul divano, faccia a faccia con Marco. “Non è un segreto. Si tratta di una cosa che ho pensato e vorrei che ne parlassimo…”
Marco gli fece cenno di continuare con il capo.
“Pensavo che potresti trasferirti qui. Portare qui tutte le tue cose, risparmiarti i soldi dell’affitto e passare insieme a me più tempo di quanto riusciamo a passarne adesso.”
Il sorriso di Marco si spense. “Non ne avevamo mai parlato…”
“È il caso di cominciare a farlo, non trovi?”
“E se qualcosa va storto?” chiese Marco.
“Di cosa parli…?”
“Se tra noi non funzionasse…?”
“Io credo che funzionerà” rispose Andrea. “Ma credevo anche che l’idea di venire a vivere da me ti avrebbe entusiasmato, e pare invece che sbagliassi…”
Marco non rispose.
Andrea, contrariato, si alzò ed andò in cucina per prendere dal frigo una birra.
“Io lo voglio” disse Marco a voce alta, dal salotto.
“Che cosa vuoi?” domandò Andrea, riaffacciandosi sull’altra stanza con la bottiglia di birra in mano.
“Voglio passare il resto della mia vita con te…” gli rispose Marco.
“Ma…?” Andrea sentiva che doveva esserci un ma.
“Ma non so cosa vuoi tu…”
“Di cosa stiamo parlando? Io ti ho chiesto di venire a vivere qui nel mio appartamento. Divideremo il letto, il divano ed il bagno. Sacrificherò spazio per te nell’armadio e nel frigo. E così potremo dormire insieme tutte le notti e svegliarci nello stesso letto tutte le mattine. E sono quasi del tutto convinto che questo ci renderà entrambi felici.”
“Per quanto tempo?” chiese Marco.
“Ma perché hai questa fottuta paura che finisca? Perché non vuoi ammettere che adesso insieme stiamo bene e che potrebbe continuare ad andarci bene per parecchio tempo ancora, magari anche per sempre…?”
“Credi davvero che potrebbe essere per sempre?”
“Non ho una bacchetta magica, non posso sapere con certezza se sarà per sempre” rispose Andrea.
“Voglio solo sapere se tu ci credi” disse Marco.
Si guardarono qualche istante, poi Andrea capì cosa realmente voleva Marco.
Tornò in cucina, prese dal frigo una seconda birra e l’aprì. Tornò a sedersi sul divano, accanto a Marco e gli porse da bere.
“Finora è stato tutto molto semplice, ti è venuto tutto naturale” disse Marco. “Ti è venuto naturale attaccare bottone quella volta in libreria. Ti è venuto naturale baciarmi quella volta al concerto e quella sera stessa ti è venuto naturale salire da me a far l’amore. Ti è venuto tutto facile, perché sei così: fai le cose per istinto e non riesci a farle se ti senti costretto. Fare il padre ti viene facile e naturale; fare il marito sarebbe stata una costrizione e ti sei rifiutato…”
Prese la parola Andrea. “Ti ho chiesto io di venire a vivere qui, e l’ho fatto perché credo sia una naturale evoluzione del nostro rapporto. Il nostro è il primo legame in vita mia che non mi spaventa. Tu sei la prima persona con cui mi viene facile e naturale stare insieme. Ed io so perché mi succede di sentirmi così con te. E so anche che è quello che vuoi che ti dica prima di accettare…”
“Sei sicuro che accetterò di trasferirmi qui?” chiese Marco, con un sorriso lievemente beffardo.
“Ne sono sicuro, perché so che sei innamorato di me. Ed ho capito cosa ti trattiene...”
“Ho bisogno che tu lo dica. Che tu dica che c’è qualcosa che ci tiene insieme, che non lo fai solo perché ti viene facile.”
“Non te l’ho ancora detto, in effetti” convenne Andrea, prendendogli di mano la birra e poggiando entrambe le bottigliette a terra. “Non l’ho detto perché finora non volevo ammetterlo nemmeno a me stesso…” spiegò mettendosi in ginocchio, davanti a Marco. “Ma è ora di farlo, vero?”
Andrea prese le mani di Marco tra le proprie, si schiarì la voce, sorrise. Guardò Marco negli occhi e nell’istante in cui gli vide spuntare un luccicone tra le ciglia, ritrovò la voce e pronunciò la formula magica che avrebbe dissipato tutti i dubbi, cancellato ogni timore, risolto qualsiasi problema, costretto il sole a splendere anche di notte, il vento a placarsi ed il diluvio a cessare. Le parole su cui avrebbero costruito insieme il loro futuro.
Disse: “Ti amo.”

Il 1° episodio.

giovedì 13 settembre 2012

Al cinema con Edgar - Come non detto

Se dico anche solo una parola in più oltre a quanto già è anticipato nel trailer, vi rovino tutto il film. Perciò aggiungo solo che mi è molto piaciuto, ma sarebbe stato formidabile vederlo mano nella mano a qualcuno.

domenica 9 settembre 2012

19. Di Marco e di quella volta su un lungomare

Il sole era da poco tramontato dietro l’orizzonte di un mare blu cobalto, lo stesso colore che di lì a poco avrebbe assunto il cielo. Il caldo, tra le strade strette e chiuse del borgo vecchio, toglieva quasi il respiro, ma lì sul lungomare la brezza ne smorzava il tormento. C’era una folla variegata che cercava sollievo e distrazione passeggiando sulla lunga terrazza: non tanto gli abitanti del borgo, quanto frotte di ragazzini arrivati dai paesi dell’immediato entroterra che si mischiavano con i tanti turisti di diversa provenienza, un’unica voce di fondo che cambiava continuamente dialetto ed accento.
Marco stava lì in mezzo, i gomiti sulla balaustra affacciata sulla stretta spiaggia, dove i bagnini stavano chiudendo uno ad uno gli ombrelloni ed i ragazzi dei bar andavano accendendo luci colorate e candele sui tavolini. Aveva il telefono ancora stretto in mano. Guardava il mare, la linea ancora netta che divideva l’acqua dal cielo, e cercava di concentrarsi sul rumore delle onde che s’infrangevano sugli scogli, nascosti dietro le case del borgo, intenzionato a cancellare il brusio fastidioso di tutte quelle voci sconosciute.
“Che fai qui?” gli chiese Carlotta, emergendo inaspettatamente dal vuoto che Marco s’era creato attorno. “Ti stiamo aspettando per l’aperitivo.”
Marco non mosse un dito. “Ero al telefono con Andrea…”
Carlotta s’appoggiò alla balaustra, accanto a lui. Era rossa come un pomodoro, nonostante le creme protettive e tutte le giornate passate al lago per allenare la pelle al sole del sud. “E quindi…?”
“Niente. Mi ha chiesto un’altra volta di raggiungere lui ed i suoi ai lidi, ora che torniamo su…”
“E quindi…?” ripeté Carlotta.
“Se in ufficio non mi fanno storie, prendo il venerdì di ferie e li raggiungo, poi domenica sera rientriamo insieme.”
“Sennò li raggiungerai venerdì sera, dopo il lavoro. Qual è il problema?”
“Non ci sono problemi…”
“Eppure la tua faccia sembra dire altro…” disse Carlotta.
Marco smise di fingersi lontano. Incrociò le braccia sulla balaustra, vi poggiò il capo e guardò Carlotta in faccia. “Sta finendo…”
Carlotta trasalì sorpresa e prese a trattenere il fiato. “Che cosa…?”
“Questa vacanza sta finendo…” rispose Marco.
“Ah ecco…” sospirò Carlotta, ricominciando a respirare. “È stata una bella vacanza, vero? Ci siamo divertiti. Ma anche le cose belle finiscono, amico mio.”
“Eh già…”
“Ma di’ la verità: non c’è stato momento in cui non hai pensato ad Andrea. E adesso che torniamo, finalmente puoi raggiungerlo e rivederlo…”
“Già…”
“L’estate prossima, magari, potremo organizzare una vacanza tutti insieme, anche con Andrea ed il bambino. Non sarebbe bello?”
“Sì certo. Ma di qua ad un anno chissà…” mormorò Marco.
“Ti odio quando sei così” sentenziò Carlotta.
Così? Come?” domandò Marco.
Carlotta non gli rispose. Non ce n’era bisogno. Anche Marco si stava sui coglioni da solo quando si lasciava prendere da certe assurde malinconie.
“Tu l’hai detto” riprese Marco, “anche le cose belle finiscono…”
“È questo il problema, Marco? Hai paura che finisca tra te ed Andrea…?”
“Mi ha completamente conquistato. E tu sola sai quanto io avessi giurato e spergiurato che non mi sarei più lasciato coinvolgere da un amore tanto da non riuscire a pensare ad altro. Mai più, dopo Giovanni. Ed invece eccomi qui. Una settimana lontano da Andrea, ed in sette giorni non c’è stato un momento in cui non mi sia chiesto come sarebbe stato se lui fosse stato qui con noi. Cos’avrebbe detto, cos’avrebbe ordinato a cena. Quali commenti avrebbe fatto. E te ne sei accorta anche tu; tu me l’hai appena detto: non c’è stato momento in cui non hai pensato a lui. Ed è vero, porco cazzo, è vero… E se domani poi finisse? Che mi resterebbe da fare se domani finisse…?”
“Se domani finisse e se l’avessi vissuto fino in fondo” rispose Carlotta, “ti resterebbero comunque tutti i bei ricordi. Però, se finisse e tu avessi passato tutto il tempo ad aver paura che finisse, avresti nient’altro che rimpianti…”
“I bei ricordi non bastano…”
“Avresti i bei ricordi, ma prima della fine avresti avuto tutti quei momenti di gioia, di passione, di spasso che avreste condiviso… Porco cazzo, non farmi inoltrare in discorsi seri con condizionali e congiuntivi: mi scappa da ridere e non divento più credibile. La sostanza è che non devi perdere tempo ad avere paura di domani, se oggi sei felice.”
“Lo so che hai ragione, lo so, ma…”
“Guarda me e Dario, per esempio” riprese Carlotta. “Stiamo insieme o non stiamo insieme? Boh chissà. Scherziamo e ridiamo insieme come due deficienti, come facevamo prima. Ma adesso, ogni tanto, quando nessuno ci vede, scopiamo. E scopiamo alla grande. E non ci facciamo domande sul domani. Non facciamo progetti insieme, non parliamo di matrimonio o di bambini, perché sappiamo di non avere un domani insieme. E ci basta quello che abbiamo oggi…”
“E a te va bene così? Ti accontenti?”
“No, Marco. Io non me ne accontento. È il verbo che usi che è sbagliato. Mi accontento di qualcosa se so che sforzandomi potrei avere qualcosa di più ma non voglio sforzarmi per ottenerla. Io invece sono felice così: non voglio di più. Dario è… è…”
“Dario è una testa di cazzo… Ed anche tu lo sei, un poco.”
“Sì. Ma siamo due teste di cazzo felici.”
“Avete fatto sesso anche stanotte, al bed&breakfast, vero?” chiese Marco, senza alcuna discrezione.
“Come fai a saperlo?”
“Quando Dario è entrato in camera, mi ha svegliato. Ha acceso la luce e ha fatto un sacco di rumore mentre si spogliava. Io non ho detto niente e ho fatto finta di dormire, ma l’ho visto: era tutto rosso, su di giri e sorrideva beato come uno che ha appena fatto il miglior sesso della sua vita. E meno male che me l’hai confermato un attimo fa, sennò questa sarebbe stata la più grossa grassa gaffe nella storia dell’umanità…”
Carlotta rise. “Sì tranquillo. Il miglior sesso della sua vita, l’ha consumato con me stanotte. Sul terrazzino davanti al bed&breakfast.”
“Dove facciamo colazione…?”
“Sul tavolo dove facciamo colazione. Ricordatelo domani mattina. Ma se fai battutine idiote al riguardo, giuro che poi domani ti getto dall’aereo.”
“Non ti capisco. E adesso l’hai lasciato da solo al tavolo con Barbara e con sua cugina: non sei gelosa? Non pensi che…”
“No, Marco. Non ci penso. Fino a due istanti fa, almeno, non ci pensavo. Ma se anche dovesse succedere, che fa? Qual è il problema? Io e Dario non abbiamo anelli al dito, non abbiamo un mutuo in comune o un bambino. Viviamo questo rapporto giorno per giorno e non ci chiediamo come evolverà. Io, almeno, non me lo chiedo…”
“Dario invece?”
“Beh a dire il vero… stanotte ha cominciato a fare discorsi strani, se non fosse il caso di esporci almeno con gli amici, se io mi considerassi libera di incontrare qualcun altro… ho dovuto tappargli la bocca…”
“Ah sì, ho capito in che modo gliel’hai tappata… E perché invece non cominciate ad affrontare l’argomento? A pensare a domani…?”
“Perché non voglio passare l’ultima sera delle mie ferie da sola sul lungomare a contemplare le onde, come qualcuno di mia conoscenza. Perché c’è un aperitivo con gli amici che mi aspetta, qui ed adesso… Andiamo? Abbiamo trovato un bar fichissimo…”
“Andiamo” accondiscese Marco.
Ed il bar era veramente fichissimo. La compagnia era divertentissima.
E domani ed Andrea, poi, sarebbero stati un po’ meno distanti.

L'episodio 1.
L'episodio 20.

venerdì 7 settembre 2012

In America lo sai che i coccodrilli vengon fuori dalla doccia...

In America, le Forze del Bene [leggi: il Partito Democratico] sono in continua lotta contro le Forze del Male; il capo delle Forze del Bene, agli occhi di molti un mitologico eroe ancora giovane e bello, non promette di conquistare il Paese e di cambiarlo in meglio di punto in bianco, ma è pronto a dare battaglia, crede nella vittoria finale del Bene e così facendo permette, a chi lo appoggia, di sognare ancora un mondo migliore per il quale valga la pena di schierarsi e di combattere.
In Italia, le Forze del Bene [sforzati parecchio e poi leggi un po' quello che ti pare] sono guidate da una mostruosa creatura policefala ma assolutamente invertebrata, che, se gli chiedi perché non proviamo a cambiare qualcosa, replica con una stanca scrollata di spalle o, forse peggio, ti colpisce alla nuca con la Costituzione: non che l'abbia letta e che ti indichi dove in essa sta scritto quello che non c'è scritto; ti tira proprio in fronte il volumetto, di spigolo, come fosse un immutabile mattone di pietra.



Quando alla fine, questa cosa che chiamano Presidente dice: "Non ho tutte queste ambizioni nella vita io..." ecco, allora capisci che quel mostro è pure morto dentro.

domenica 26 agosto 2012

Cefalù


A memoria di una breve ma bella vacanza. In buona compagnia.

sabato 18 agosto 2012

W.H. Auden - Funeral Blues

Stop all the clocks, cut off the telephone,
Prevent the dog from barking with a juicy bone,
Silence the pianos and with muffled drum 
Bring out the coffin, let the mourners come.

Let aeroplanes circle moaning overhead
Scribbling on the sky the message He Is Dead,
Put crêpe bows round the white necks of the public doves, 
Let the traffic policemen wear black cotton gloves.

He was my North, my South, my East and West,
My working week and my Sunday rest,
My noon, my midnight, my talk, my song;
I thought that love would last for ever: I was wrong.

The stars are not wanted now: put out every one;
Pack up the moon and dismantle the sun;
Pour away the ocean and sweep up the wood;
For nothing now can ever come to any good.

Ieri, mentre cazzeggiavo su Wikipedia, di link in link sono capitato su questa poesia del 1938, che mi ha commosso fino alle lacrime. Non la ricordavo, ma si tratta della poesia citata nella scena del funerale di Quattro matrimoni e un funerale (1994).



P.S. Approfitto di questo post per avvisare che mi assento nuovamente per qualche giorno. Al mio ritorno dovrebbe essere ricomparso anche l'umore giusto per riprendere e portare a conclusione il racconto di Marco ed Andrea. A presto.

giovedì 16 agosto 2012

Vuoto a perdere

Ieri sera mi è caduto l'occhio su uno scambio di commenti sulla pagina FaceBook dell'amico con cui sono stato al Padova Pride Village alcune settimane fa [ne accennavo qui]. In sostanza, diceva di essere stato in questo luogo ma "solo per assistere al concerto" dell'amata Alice e di avervi visto solo "tristezza" e "gente strapiena di vuoto"...
...
Vabbé, siamo stati nello stesso luogo e nello stesso momento ma in due dimensioni diverse e parallele, m'è venuto di pensare.
A meno che con quelle frasi non si riferisse proprio a me, perché io sì quella sera mi sono sentito particolarmente triste e vuoto, soprattutto quando tornava ripetutamente a cadermi l'occhio su una coppia di ragazzi che insieme non facevano la mia età, uno con una bionda cresta alla mohicana, l'altro con la faccia da secchione sfigatello, seduti l'uno sulle ginocchia dell'altro per cedere una sedia a quella che poteva essere la madre dell'uno e la suocera dell'altro...
Una sensazione di vuoto e di smarrimento che mi ha ripreso più volte anche nei giorni a seguire, mentre ero in spiaggia sulla sdraio e la musica negli auricolari non suonava abbastanza forte da coprire quella voce che diceva: anche quest'estate in vacanza da solo!?!
Che è un bel dire che quando si è soli si è liberi di fare tutto e solo quello che si vuole. Ma si omette di aggiungere che far le cose in due è comunque meglio.
Sono abbastanza stufo di tutta questa solitudine sentimentale. Per compensare, in certi momenti immaginavo cosa avrebbero detto e fatto Marco&Andrea se si fossero ritrovati con i miei stessi rumorosi vicini di sdraio o se avessero visto sul lungomare le stesse facce che incrociavo io. Un gioco che però rivela(va) come anche raccontare la loro storia non sia altro che un tentativo di compensare quello che MI manca.
In un ristorante, l'ultima sera di vacanza, mentre mangiavo solo, la tavolata accanto era composta da un terzetto di allegri ragazzi gay e da un altrettanto spigliato terzetto misto eterosessuale. Una di quelle tavolate come piacciono a me, in cui si ride e si scherza anche sulla diversità dei sessi e degli amori, una di quelle cui non partecipo da mesi e che pure ho cercato di riprodurre con la fantasia creando per Marco&Andrea un variegato circolo di amici.
Un variegato circolo di amici è proprio quello che questo blog non è riuscito a ricreare attorno a me. Per un po' ci ho sperato, ma niente.
Marco ed Andrea hanno ancora qualcosa da dirsi e qualcosa da fare. Dopodiché io non so se continuare o meno l'esperienza del blog. Avrei un bisogno quasi disperato di tuffarmi in una vita più vera, con un amore e delle persone reali con cui parlare e da abbracciare alla fine delle nostre belle chiacchierate... Ma è la paura di non trovare più mai né l'amore né il circolo di amici che mi ha spinto ad aprire un blog e mi ha trattenuto tanto a lungo qui. Quindi, non so, non sono decisioni che riesco a prendere razionalmente da un giorno all'altro.
Quello che mi resta è la paura. Ed una voragine che non mi inghiotte solo perché è la voragine ad essere dentro di me.

mercoledì 8 agosto 2012

18. Di Marco e di quella volta che conobbe Davide

“Pronto…?”
“Ehi, pronto” rispose Andrea. “Che fai?”
“Niente, stavo per uscire…” replicò Marco. “Non mi aspettavo una tua chiamata oggi che è il sabato di Davide…”
“Il bello è questo: adesso che sai tutto, posso chiamarti senza aver paura che tu senta la voce di Davide in sottofondo…”
“La contropartita è che io ho la mano sulla bocca di Tommaso per tenerlo zitto…”
“Chi?” chiese Andrea.
“Non provare a fare lo gnorri. Sai esattamente di chi sto parlando…”
“So chi è Tommaso. Ma non mi aspettavo questa punzecchiatura…”
Punzecchiatura?” fece Marco. “Altro che punzecchiatura: non sai il morso che mi sta dando… E non sai che morsi mi stava dando prima che chiamassi. E dove…”
“Sei un cretino…”
“Per questo stiamo bene insieme: perché siamo uguali.”
“Noi abbiamo appena finito di pranzare. Perché non ci raggiungi, me e Davide?”
Marco fu colto completamente alla sprovvista da quella domanda. “Non… Beh, perché non me l’hai chiesto ieri? Mi sarei procurato qualcosa da portare a Davide…”
“Perché non volevo che cercassi di arruffianartelo con qualche regalo. O che ti preparassi qualche storiella da raccontargli.”
“Sì ma se, senza regali, non gli piacessi…?”
“Sarebbe terribile…” sentenziò Andrea con enfatica gravità.
Fu così che Marco, tesissimo, mezz’ora più tardi si ritrovò a suonare il campanello di casa di Andrea. Un paio di minuti dopo, finalmente, la porta si aprì, ed un nanetto con i capelli neri e gli stessi occhi di Andrea si affacciò con aria curiosa.
Marco si piegò sulle ginocchia ed articolò un paio di vocali che restarono mute, prima di riuscire a scandire un ciao e a mostrare il suo sorriso migliore.
Davide restò in silenzio, timido di fronte allo sconosciuto, ma senza smettere di osservarlo con un’espressione a metà tra l’interrogativa e la corrucciata. Forse non si aspettava di aprire la porta a qualcuno che non conosceva.
“Ciao” ripeté. “Io mi chiamo Marco. E tu sei Davide?”
Niente, il bambino non proferiva verbo e non cambiava espressione.
Andrea apparve alle spalle di Davide, prendendoselo in braccio. Era rimasto qualche passo indietro a godersi la scena. “Ehi, ma è il mio amico Marco. Ti ricordi che ti avevo detto che sarebbe venuto a trovarci il mio amico Marco? Dai Davide, saluta Marco.”
Il bambino disse finalmente ciao e subito dopo si strinse al padre, la sua rosea e paffuta guancia contro quella ispida di barba del genitore. Sarebbe stata un’ottima foto da incorniciare: insieme, in quella posa tanto spontanea, ispiravano sincera tenerezza.
Marco si frugò rapidamente nella tracolla. “Ti va una caramella, Davide?” domandò, porgendogli una caramellina al mou.
Davide cacciò subito fuori la manina aperta, guardò qualche istante il dono che gli era stato porto, poi scartò la caramella e l’infilò in bocca, concedendo finalmente all’ospite il suo primo sorriso.
“Non avevamo detto: niente regali ruffiani…?” fece Andrea scostandosi per lasciare entrare Marco in casa.
“Davide, se ti piacciono, ne ho tante altre…” replicò Marco, senza badare al padre saccente.
“Mi piacciono” confermò il bambino.
“Guarda che non è un cagnolino cui si rifila lo zuccherino per farsi fare le feste…” tornò alla carica Andrea, poggiando il figlio a terra.
“Davide, tuo papà è terribilmente noioso…” disse Marco.
“La mamma è più noiosa” rispose il bambino.
Andrea accennò un rapido e furtivo gesto dell’ombrello. “Credo che l’ometto intenda dire che, se ci fosse la mamma al posto del papà, lei non gli lascerebbe mangiare caramelle dieci minuti dopo che ci siamo lavati i denti…”
“Basta non dirlo alla mamma” sentenziò Marco; poi, rivolto al piccolo: “Vero che non lo diciamo alla mamma, Davide?”
Mentre il bambino non dava alcun cenno d’intesa, Andrea ghignò. “Ecco bravo. Così siamo tutti sicuri che la prima cosa che dirà alla mamma quando la vede è che lo zio Marco l’ha riempito di caramelle e che s'è raccomandato di non dirle niente…”
Marco guardò Andrea con lo sguardo agghiacciato di chi avrebbe voluto strapparsi la lingua a morsi.
Andrea se la rise ancora. “Non è mica la fine del mondo, vero Davide?”
Alla richiesta di complicità formulata dal padre, il piccolo assentì con decisione, poi prese a fissare Marco.
Marco s’inginocchiò. “Allora Davide, cosa mi racconti?”
Andrea intervenne subito. “Guarda che sta aspettando la caramella che gli hai promesso…”
Marco estrasse dalla tracolla l’intero pacchetto per porgerlo al bambino, ma il padre fu più lesto e glielo prese di mano. “Solo un’altra caramella, per adesso” sgridò entrambi. “Questo pacchetto lo prendo in consegna io”.
“Sei noioso” gli rispose Davide.
“Ah sì, sono noioso? Allora questa è proprio l’ultima caramella che avrai, oggi” replicò Andrea, che subito dopo guardò Marco con un’occhiataccia per dargli ad intendere che era tutta e solo colpa sua se era stato appena degradato da padre perfetto.
“Beh dai… Papà non è poi tanto noioso, vero Davide? Scommetto che insieme vi divertite un casino…”
“Ehm, non so se casino sia una parola lecita da pronunciare davanti ad un bambino di quattro anni” disse a mezza voce Andrea, che si stava effettivamente divertendo un casino a prendere in giro Marco per quel suo modo di rapportarsi al piccolo. “Dai Davide, racconta a Marco cos’abbiamo fatto stamattina.”
“Siamo stati al parco-giochi e abbiamo giocato con Alberto…”
“Chi è Alberto? Un tuo compagno d’asilo…?” domandò Marco.
Davide si esibì di nuovo nella sua espressione corrucciata.
Andrea rise guardando il figlio. “Davide, non fare così. Marco non sa chi è Alberto. Spiegaglielo…”
“Alberto è un lupo…”
“È il cane lupo della signora del primo piano” spiegò Andrea.
“Un lupo?” fece Marco enfatizzando all’eccesso il tono sorpreso. “Ma non hai paura dei lupi? Sono cani grandi…”
Ancora quella piccola fronte aggrottata ed il ghigno sornione del padre. “Davide dai, smetti di fare quella faccia. Marco non ti sta prendendo in giro, lui non sa che Alberto è ancora un cucciolo. Avrà sei, sette mesi…” puntualizzò.
“È piccolo” precisò Davide.
“E poi, dopo il parco-giochi, dove siamo stati?”
“A prendere il gelato…”
“Allora non è solo lo zio Marco a farti mangiare i dolci fuori pasto…” disse Marco, guardando Andrea con un sopracciglio alzato.
“Siamo stati al centro commerciale a comprare un paio di ciabattine. Cominciava a fare troppo caldo per stare all’aperto. E allora gli ho preso anche un gelato. Qualcosa in contrario?” replicò Andrea con un vago accento di sfida. “Davide, che ne dici di far vedere a Marco la tua cameretta? Marco non l’ha mai vista…”
Il bambino restò immobile qualche secondo, corrucciato e meditabondo, ma alla fine decise di concedere all’amico di papà una visita guidata della sua stanza. Si voltò per avanzare spedito verso la sua camera, chinandosi un istante lungo il tragitto per raccogliere una pallina che si ritrovò tra i piedi e doveva essere rimessa a posto nella cesta dei giocattoli.
Andrea fece cenno a Marco di seguire il piccolo.
“Come ti pare che stia andando…?” chiese Marco sottovoce.
“Guarda che non è mica un esame” gli rispose Andrea.
“Lo so. Ma credi che gli sia simpatico…?”
“Ti detesta” disse Andrea, per poi seguire Davide nella sua stanza, ma si voltò per guardare Marco che non accennava a muoversi, impietrito, e scoppiò a ridere.
“Sei un cretino…” sussurrò Marco.
Per questo stiamo bene insieme: perché siamo uguali.

L'episodio 1.
L'episodio 19.

domenica 29 luglio 2012

Chiuso per ferie

Sto per mettermi a fare la valigia: domattina si parte per il mare. Esclusivamente sole e mare, meteo permettendo.
E stasera sarò al Padova Pride Village: accompagno un amico allo spettacolo di Alice. Non sono patito della signora Carla Bissi, però è una scusa per dare un'occhiata al Village. Il problema è che quest'amico, lui sì patito di Alice, è un gay represso e vagamente sessuofobico. Sarà un po' come portare un diabetico in pasticceria: chi schiatterà per primo, lui per un'imprevista abbuffata o io per una costretta continenza...? Mah.
E tutto questo solamente per dirvi che nei prossimi giorni sarò più latitante del solito, nel caso improbabile che qualcuno si preoccupasse.

venerdì 27 luglio 2012

Jay Brannan - ROB ME BLIND



(testo e musica di Jay Brannan)

Can we clear the air between us, and can we do it soon?
I've been clawing at the mortar, your nails are dirty too
When night falls, I crawl to the window and reach for the pain
I'll fall, but I call you anyway

Someday we'll be eating lobster and drinking fine champagnes
I'll sell seashells by your seashore till you swim through my veins
He who sails is he who discovers, let's hear "anchors aweigh"
There's space to claim under these covers, you steer clear of here anyway

You and me, we spark; no, I take that back
Like a dancer in the dark, my beauty it's black
Just match your lips up to mine
Come on and steal a kiss, rob me blind

You don't need another player gambling for your charms
Dreaming of a victory wrapped up in your coat of arms
I bid more if you're taking score, and I'm all set to pay
But I'll lose cuz you'll choose him anyway

The greatest thing I ever learned is I don't know a thing
The hardest thing I ever earned is a chance in the ring
Simple boys make better boyfriends, that just isn't true
And time will tick 'til you can see there's no simple in loving you

mercoledì 25 luglio 2012

17. Di Marco e di un semifreddo alla vaniglia

Sdraiato sul divano, con Marco steso sopra di lui e la sua testa sul petto, Andrea stava riflettendo che tutto sommato il temporale era passato senza fare danni: anzi, chiamarlo temporale era addirittura eccessivo. Il segreto che così strenuamente aveva celato per due mesi sembrava essere stato più che altro una nube scura e minacciosa, che l’aveva fatto brigare non poco, quando poi invece aveva scaricato a terra soltanto le proverbiali quattro gocce. D’altro canto, però, anche se Marco ora non sembrava aver preso male la notizia di Davide, poteva ancora darsi che in un secondo tempo si accorgesse che la presenza del bambino influiva in qualche modo sulla loro relazione, che un giorno scoprisse che tutta la sua buona volontà non era sufficiente e che a lungo andare la gestione del loro rapporto si rivelasse una prova più ardua di quanto credesse.
Ma affronteremo il problema se e quando si presenterà, pensò Andrea, mettendo un punto alle sue elucubrazioni. Era fatto così: aveva uno sviluppato senso pratico e preferiva risolvere i problemi contingenti, piuttosto che passare il tempo a coltivare le proprie paranoie. E proprio per tale ragione, tentare di nascondere a Marco quella parte di sé, giorno dopo giorno s’era rivelato più stressante di quanto avesse messo in preventivo. Niente più stress adesso. Vivere ogni giorno come viene, come dice papà. “E se ti alzi, amore mio, vado a mangiarmi la torta-gelato…”
Marco si sollevò da sopra Andrea, ma si scoprì come frastornato per il modo in cui era appena stato apostrofato. Era la prima volta, per quel che ricordasse –e una cosa del genere non sarebbe andata a cadere in un dimenticatoio– che Andrea lo chiamava amore mio.
Andrea gli lesse negli occhi quel pensiero. “Non montarti la testa, adesso. Chiamo amore mio anche il cane dei miei quando devo invitarlo a levare il culo dal divano…”
“Certo, ho capito” rispose Marco, tirandosi a sedere, mentre Andrea poggiava a terra i piedi e si chinava per frugare tra i vestiti gettati alla rinfusa. “Ho capito. Quando dici amore mio, in realtà intendi qualcosa come peso sullo stomacorompiballe, mangiapane a ufo… Una cosa così: me lo ricorderò in futuro. Non vorrei mai equivocare.”
“Esatto… E pensa a quanto ti voglio bene, dato che fino ad oggi non t’avevo mai dato del rompiballe…” replicò Andrea infilandosi le mutande e rizzandosi in piedi.
“Prendi la torta? Me ne porti una fetta…? Una fettina… che torta è?”
Amore mio,” rispose Andrea, “non si mangia la torta sul mio divano… Anzi, a proposito: adesso non ho voglia di controllare, ma se domani scopro che mi hai macchiato il divano, ti faccio addebitare il conto della tintoria…”
Marco si grattò la pancia prima di controllare rapidamente sotto un paio di cuscini. “Credo di aver deposto tutto il mio seme nell’apposito contenitore in lattice”, disse seguendo Andrea in cucina.
“Ehi” lo fermò subito con un rapido gesto della mano, portata a barriera. “Nella mia cucina non si entra senza avere addosso almeno un paio di mutande… e già che cerchi gli slip, vedi di raccogliere da terra anche gli appositi contenitori in lattice…”
Marco obbedì agli ordini. Mentre s’infilava gli slip, disse, da una stanza all’altra: “Sai, dato che non hai più niente da nascondermi, avevo già pensato che d’ora in avanti avremmo potuto passare qui a casa tua più tempo che a casa mia, visto che la tua è più grande e tu hai l’aria condizionata…” Si chinò a raccogliere un paio di salviette e due condom da sotto il divano, fermandosi solo un istante a chiedersi se ce ne dovesse essere in giro un terzo. “Ma visto il modo autoritario con cui ti poni con i tuoi ospiti, penso che continueremo a grondare sudore a casa mia…”
Qualche minuto dopo, seduti al tavolo della cucina e armati di forchettina da dessert, Marco e Andrea avevano già fatto sparire metà del semifreddo alla vaniglia.
“Allora, raccontami un po’: com’è successo?” domandò Marco.
Com’è successo cosa?” chiese Andrea, cadendo dalle nuvole.
“Com’è successo che tu abbia messo al mondo un clone, un cuccioletto con la tua identica medesima faccia da…”
“Attento!” lo fermò Andrea puntandogli la forchettina ad altezza degli occhi.
“…La tua identica faccia da schiaffi: non mi sarei permesso mai di dire altro… Com’è successo?”
“È successo. Linda è rimasta incinta. Non è qualcosa che sono andato cercando…”
“Sì ma… se uno non vuole figli, oggi ci sono tutte le precauzioni del caso…”
“La verità è che è stata Linda a volerlo” gli rispose Andrea. “Avevamo una relazione altalenante, ci prendevamo e ci lasciavamo, io avevo altre storie… e lei ha pensato che, se restava incinta, io avrei smesso di vedere altre persone, che avremmo messo su famiglia e avremmo vissuto insieme felici e contenti… Ma non era quello che volevo io: io sapevo che non saremmo durati troppo insieme e glielo dicevo. Lei sapeva anche che, tra un ritorno di fiamma con lei ed il successivo, io provavo a tessere una relazione con altri uomini. E per tutta la gravidanza non abbiamo fatto altro che litigare. Ho litigato anche con i miei, sai: dicevano che avrei dovuto sposare Linda e riconoscere il bambino. Ma non l’avrei fatto mai. Sposarla, dico…”
“Ma in che rapporti siete, tu e Linda?”
“Adesso siamo in buoni rapporti, buonissimi. Mi ha capito. Ha capito che non doveva neanche provarci ad infilarmi in una trappola del genere, perché, nel momento esatto in cui ho realizzato che voleva usare il bambino per quello scopo, è sparito ogni sentimento che potessi provare nei suoi confronti…”
“Prima della trappola però qualcosa c’era…?”
“Era… boh, l’ultima occasione che mi era rimasta per avere una vita da eterosessuale, l’unica ragazza che ancora mi facesse girare la testa. I miei sapevano tutto… quasi tutto… ma erano convinti che alla fine avrei scelto lei. Perché Linda è davvero uno spettacolo, una forza della natura. Ed era pazza di me ed io mi sentivo da dio quando stavo con lei. Ma è finito tutto quando ha cercato di forzarmi la mano…”
Finito tutto: sei proprio sicuro?”
“Davide è l’unica cosa che abbiamo in comune, adesso. Non mi metto in casa qualcuno che decide della mia vita al posto mio. Ho questo difetto qua. E alla fine lei se l’è messa via, te l’ho detto.”
“E con Davide, invece, come va?”
“Credo di cavarmela bene come padre… Ho un po’ paura che possa risentire del fatto che i suoi genitori abbiano vite completamente separate, ma al momento non mi pare che ci siano problemi…”
“Ma il modo in cui è stato concepito? Hai parlato di trappola…”
“Ma non ha nulla a che fare con il rapporto tra me e il bambino” assicurò Andrea. “La gravidanza è stata un periodo complicato, per le decisioni che avevo preso, i rapporti con Linda e con la mia famiglia. Ma Davide non c’entra. L’ho amato dal primo momento in cui l’ho preso in braccio e l’ho sentito mio. Davide è mio figlio. E nella mia modesta opinione, questo è tutto ciò che conta.”

L'episodio 1.
L'episodio 18.

martedì 24 luglio 2012

Pacifico & Malika Ayane - L'UNICA COSA CHE RESTA



È sceso il buio intorno, mi vedi?
È ancora viva la fiamma che trema
Prendi ancora fiato e andiamo
Non ti spaventare: noi possiamo

Faremo fino in fondo ogni strada chiusa
Supereremo gole, fiumi di acqua velenosa
Ogni giorno è un salto e un posto caro da lasciare
Dormi ché tra poco è chiaro e ti dovrò svegliare

Meno male che ci sei ancora
Meno male che ci sei tu
Dietro una porta sbarrata a tutti
Sei riuscito a trovarmi

Meno male che ci sei ancora
Meno male che ci sei tu
Per una via sconosciuta agli altri
Sei riuscito a toccarmi

La notte è ferma, adesso ci aspetta
Nel profondissimo mare asciutto in cui perdersi e nuotare
Guarda che sia leggero il peso: poco puoi portare
Lascia ogni fatica, lascia andare

Meno male che ci sei ancora
Meno male che ci sei tu
Giravo a vuoto senza partire
Sei riuscito a guidarmi

Meno male che batte ancora
Meno male che arrivi tu
Cadendo indietro tra le tue dita
Fino a dimenticarmi

Passeremo freddo e vuoto
Solo allora si vedrà
Che brilliamo ancora nel profondo dove il cielo

Meno male che ridi ancora
Meno male che sei con me
Ogni ora che va veloce
Sei tu la cosa che resta

L’unica cosa che resta

lunedì 23 luglio 2012

16. Di Marco e di un piatto di pennette alla cubana

Andrea aveva scelto di cucinare per Marco un piatto che gli riusciva senza troppa fatica, ma anche il piatto che più aveva ricevuto apprezzamenti nella cerchia dei suoi amici: le pennette alla cubana. La pasta era perfettamente al dente ed il sugo, con i funghi ed i dadini di prosciutto, era piccante quanto bastava.
Seduti al piccolo tavolo in cucina, l’uno di fronte all’altro, in qualsiasi altra occasione sarebbe stato un piacere per Andrea osservare la voracità con cui Marco mangiava il piatto che gli aveva cucinato. E nonostante avesse una fame tale che gli tremavano le ginocchia, in qualsiasi altra occasione Marco non se ne sarebbe rimasto con il capo chino sul piatto, impegnato ad evitare lo sguardo del suo ospite.
“Hai fame…” constatò Andrea.
“Le pennette sono davvero buone… e poi ho saltato il pranzo…” ammise Marco, sollevando finalmente gli occhi.
Andrea era lì, seduto davanti a lui. Aveva mangiato solo un paio di forchettate di pasta e lo squadrava con i suoi occhi dolci. “Com’è che non hai pranzato? Troppo lavoro…”
Marco si bloccò qualche istante poi cacciò il rospo: “Nel caso te ne fossi dimenticato, mi hai invitato perché avevi una qualche comunicazione da farmi…”
“Sì, è vero… ma non volevo farti perdere l’appetito…”
“L’ho ritrovato” rispose Marco accennando al piatto quasi vuoto.
“Allora forse è il caso che ti dica quello che devo dirti…”
“Ecco. Ora, l’appetito l’ho perso di nuovo” replicò Marco. Più che altro la sua fu una battuta: non sentiva più alcun nodo allo stomaco; ogni preoccupazione era sparita nel momento esatto in cui Andrea gli aveva aperto la porta di casa e gli aveva sorriso. Questa era la grande magia di Andrea: che ogni pensiero si volatilizzava, ogni nube si diradava al suo cospetto.
“Ok, allora ti lascio finire la pasta. Sia mai che poi mi tocchi buttare via tutto…”
“Andre’, ma è una cosa tanto brutta quella che mi devi dire…?”
Andrea gli sorrise e gli fece cenno di no con il capo. “Non è affatto brutta. Ma te la devo dire. Per questo stamattina t’ho scritto l’sms: perché stasera tu mi obbligassi a dirtela. Non è giusto continuare a rimandare…”
“Sono pronto. Dimmi” lo incitò Marco.
Andrea fece un gran sospiro, si levò dalla tavola e, prendendo la mano del suo ragazzo, l’invitò a fare lo stesso e a seguirlo in soggiorno. Lo fece sedere sul divano, quindi prese dalla libreria una delle due cornici che avevano attratto l’attenzione di Marco, quella con il nipotino paffutello con il grembiulino dell’asilo, e gliela porse, dicendo: “Lui è Davide.”
Marco prese tra le mani la fotografia. “Il figlio di tua sorella…?”
“Davide è mio” spiegò Andrea.
Marco registrò l’informazione e, dopo averla sommariamente analizzata, con un tono di voce indispettito chiese: “Perché cavolo non me ne hai mai parlato prima…? Dovrebbe venire naturale parlare del proprio figlio, in una qualche conversazione… e non è che noi non abbiamo mai conversato, in questi due mesi. Perdio, non è che ci si può dimenticare di avere un figlio.”
Era esattamente la reazione che Andrea si aspettava, ma il bel discorso che si era preparato prima, in quella situazione e con Marco davanti, quello sì sembrava dimenticato. “Non lo so, Marco. Non sono riuscito a parlartene subito, a dirlo subito. Perché avevo paura. E più passava il tempo, più parlarne sembrava difficile…”
“Ma paura di cosa, Andrea? Non è una disgrazia, non è una malattia. Perché dovevi avere paura di parlarne…?”
“È solo un problema di fiducia” rispose Andrea.
Fiducia, Andrea? Non hai fiducia in me? Cosa pensavi? che avrei messo in discussione questo nostro rapporto quand’avessi saputo che avevi un figlio…?” chiese Marco.
“No Marco” disse, sedendo accanto a lui sul divano. “Non parlo della mia fiducia in te, ma della tua in me… Non ti ho parlato subito di Davide perché non ti conoscevo e ho pensato che dirti subito che avevo un figlio ti avrebbe fatto scappare, perché è quello che è successo con i due ragazzi che ho frequentato prima di te: quando ho detto loro che c’era Davide, nel giro di pochi giorni hanno deciso che io e Davide eravamo incompatibili con il loro stile di vita. A te non l’ho detto, perché tenevo davvero tanto a conoscerti e non volevo che ti dileguassi subito. Poi, quando ti ho conosciuto ed ho capito che a te tengo davvero tanto, molto più che a qualunque ragazzo cui abbia fatto la corte in passato, a quel punto… beh, a quel punto è subentrata la paura che tu potessi pensare che non mi fidassi abbastanza di te da dirti tutto subito. Capisci, Marco? Ho continuato a nasconderti Davide, non perché non mi fidassi di te, ma perché avevo paura che tu non ti saresti più fidato di me…”
“No Andrea, non ho capito” rispose Marco, “sembra un altro dei tuoi guazzabugli di parole…”. Si concentrò sulla fotografia che teneva in mano, sull’espressione spensierata di Davide, e gli parve una fedele riproduzione dell’espressione che Andrea sfoggiava quando stavano bene insieme. Quel bimbo gli infondeva un’indescrivibile tenerezza, gli faceva pensare a come dovesse essere stato il suo Andrea da bambino. E l’immagine di Andrea come un cucciolo d’uomo gli faceva venir meno ogni desiderio di litigare con l’Andrea adulto che aveva accanto.
“Non sto cercando di imbrogliarti con le parole. Voglio dire che…”
“Rispondi solo alle mie domande, adesso” lo interruppe Marco. “Queste foto: non stavano sulla libreria le altre volte che sono venuto qui, vero?”
“Le avevo nascoste in un cassetto. Avevo nascosto tutto e avevo chiuso a chiave la camera da letto di Davide.”
“La sua camera da letto? Perché? vive qui con te?”
“Ce l’ho a weekend alterni. Ed io e la madre ci alterniamo le festività… Ti eri accorto che sparivo un weekend sì ed un weekend no, vero?”
“Ma non ti ho mai fatto domande, perché mi sono sempre fidato di te, idiota…” puntualizzò Marco, prima di chiedere: “La madre di Davide è la ragazza nell’altra foto?”
“Si chiama Linda” rispose Andrea, prendendo e porgendogli la seconda cornice.
“Pensavo che fosse tua sorella… Di tua sorella mi hai parlato, e di tua madre, e dei tuoi amici… ma non mi hai presentato mai nessuno: per paura che non ti reggessero il gioco su Davide, vero?”
Andrea assentì con il capo.
“Questo è quasi un sollievo, perché cominciavo a temere che non mi presentassi ai tuoi amici perché ti vergognavi di me…” disse Marco.
“Avevo solo paura che qualcuno nominasse Davide anche solo incidentalmente… Ma insomma, com’è? Mi perdoni perché ho tenuto il segreto più di quanto fosse opportuno, oppure no?”
“No Andrea” gli rispose Marco. “Se vuoi farti perdonare, devi sforzarti e trovare qualcosa di meglio dei tuoi occhioni dolci per ben dispormi nei tuoi confronti.”
“Ho preso la torta-gelato…”
“La torta-gelato è una grande trovata… ma a quella ci dedichiamo dopo…”
Dopo che cosa?”
Seguirono rumori di zip, di bottoni sbottonati, qualche rantolo ed un sacco di fruscii sui cuscini del divano.

L'episodio 1.
L'episodio 17.

domenica 22 luglio 2012

Patrick Scavo



Dall'episodio 11 della sesta stagione di Desperate Housewives, rivisto in replica stasera su RAI4.

mercoledì 18 luglio 2012

15. Di Marco e di quella volta che incrociò una signora con il golfino grigio

Contrariamente a quanto avvenuto con il messaggio di Carlotta, Marco non moriva dalla voglia di sapere di che cosa Andrea volesse parlargli. O, per meglio dire, non era curioso in senso stretto di scoprire se Andrea voleva realmente affrontare con lui un discorso serio, un qualche problema o un intoppo, poiché temeva che dopo quel discorso il loro rapporto potesse cambiare. E Marco non voleva assolutamente che qualcosa cambiasse nel loro rapporto.
Marco era felice esattamente così come stavano le cose in quel momento.
Era felice che il buongiorno di Andrea fosse il primo sms che riceveva ogni mattina, quando non trascorrevano la notte insieme, ed era felice, quando passavano la notte nello stesso letto, di svegliarsi sempre prima di lui e di poter osservare in silenzio l’espressione serena che aveva dipinta sul volto mentre dormiva. Era felice che Andrea si facesse trovare ogni tanto fuori dal cancello aziendale per portarlo a pranzo o a cena o al cinema o ad uno spettacolo teatrale, senza mai avvisarlo prima, ed era felice quando trascorrevano chiusi in casa e senza vestiti una buona metà delle loro domeniche. Era felice perfino quando Andrea non si faceva vivo per un intero weekend e Marco poteva utilizzare tutto quel tempo libero per prepararsi al loro prossimo incontro. Era felice addirittura quando Andrea non era il protagonista dei suoi pensieri, mentre lavorava o era in palestra o con i suoi amici. 
Ed era davvero tanto tempo che non si sentiva così sinceramente, profondamente, sostanzialmente felice.
Quando aveva letto l’sms di Andrea che recitava semplicemente Devo parlarti, Marco aveva accusato una netta sensazione di paura: non voleva assolutamente smettere di sentirsi felice. Ma forse non sarebbe accaduto, forse si stava preoccupando per nulla.
Oppure, forse, Andrea voleva rivelargli dove trascorreva i weekend che non passavano insieme, perché a volte accadeva che Marco lo chiamasse la sera e lui non rispondesse, come mai mentre parlavano o scherzavano capitasse che, senza un motivo cosciente, Marco provasse la sensazione che Andrea aveva frettolosamente cambiato o tagliato corto un discorso.
Per non cadere vittima di cento di queste e di altre mille paranoie, Marco si costrinse a non pensare all’sms ricevuto e si concentrò solo ed esclusivamente sulle fatture che stava passando al vaglio.
Verso l’ora di pranzo, il display del suo cellulare s’illuminò per avvisarlo di una chiamata in entrata. Era Andrea.
“Ma hai ricevuto l’sms?”
“Sì…” rispose Marco. Avrebbe voluto interpretare la voce di Andrea e scoprire anche solo da quella quale sorte gli fosse riservata, ma non ci riuscì.
“Allora vieni a cena da me, preparo qualcosa… e poi… poi si parla un po’” disse Andrea, restando in un equilibrio precario tra il tono deciso ed asciutto di chi impartisce istruzioni e quello interrogativo di chi cerca una conferma o un appoggio.
Marco si limitò a rispondere: “D’accordo. Quando finisco qui, passo da casa a cambiarmi e ti raggiungo.”
“Vuoi che venga io a prenderti?”
“No, lascia stare. Vengo in bici…”
“Ok” rispose Andrea e restò in attesa, come se aspettasse una qualche domanda.
“A stasera” tagliò corto Marco e chiuse la telefonata per tornare a rifugiarsi in una totale estraniazione. Aveva lo stomaco chiuso e rinunciò al pranzo. Non uscì nemmeno dall’ufficio e continuò a lavorare.
Mentre tornava a casa in bici, finito il lavoro, e poi dentro il minimarket, si concentrò esclusivamente sulla breve lista della spesa che non rinunciò a fare.
A casa, s’infilò sotto il getto di una doccia che durò il tempo che normalmente avrebbe impiegato per farne tre. Poi, prima di rivestirsi, accese il notebook per controllare posta elettronica, Facebook e l’homepage di Repubblica.it, senza però trovare bollette da controllare, né post di amici da commentare, né notizie di cui approfondire la lettura. Anche scegliere l’abito per la serata si rivelò molto meno impegnativo e più veloce di quanto in cuor suo sperasse: dato che non poteva prevedere l’esito della serata né escludere che avrebbe trascorso comunque la notte da Andrea, indossò un paio di calzoni ed una camicia pulita, infilando nella borsa a tracolla una cravatta arrotolata, cosicché se necessario potesse andare direttamente da casa di Andrea al lavoro l’indomani mattina.
Quando si ritrovò nuovamente in sella alla bici, aveva esaurito le possibili distrazioni e, per non crucciarsi troppo sulla rivelazione che l’attendeva, pedalò più forte che mai verso la periferia.
Arrivato sotto casa di Andrea, trovò il cancelletto d’ingresso già aperto ed entrò con la bici nel cortile della palazzina. La parcheggiò proprio a ridosso del portone, in uno degli appositi stalli.
Gli venne in mente che per farsi aprire il portone avrebbe dovuto riattraversare il cortile per suonare il campanello del cancello, quando invece una donna s’affacciò dal portone per uscire. Si ritrovarono faccia a faccia.
La donna, una bella donna sopra la cinquantina coi capelli freschi di taglio ed un golfino sulle spalle, lo squadrò un istante, prima di chiedergli se intendesse entrare e prima di cedergli il passo per tenergli aperto l’uscio. Poi, mentre entrava in ascensore, Marco ebbe addirittura la sensazione che la donna sostasse per controllare il pulsante di quale piano premesse, ma non alzò lo sguardo per verificare, pensando alla proverbiale vicina impicciona.
Arrivato all’ultimo piano, suonò il campanello accanto alla porta di Andrea. Lui gli aprì e parve sorpreso nel ritrovarselo davanti.
“Sono troppo in anticipo?” fu la domanda di Marco.
“No, è che mi aspettavo fosse mia madre. È appena andata via e pensavo che fosse tornata indietro perché s’era scordata qualcosa… Tu non hai suonato giù: come sei entrato dal portone?” gli chiese, prima di farsi da parte perché entrasse in casa.
“Mi ha aperto una signora che stava andando via…” rispose Marco, colto da un sospetto.
“Con un golfino grigio sulle spalle? Era mia madre…” gli confermò Andrea.
Marco avvampò, imbarazzato per il timore di aver fatto una prima impressione meno che ottima alla madre del suo ragazzo. L’aveva ringraziata perché gli aveva tenuto il portone, ma le aveva sorriso? Lei aveva intuito chi fosse lui? Che si fosse accorta che lui l’aveva presa per la solita impicciona, che gliel’avesse letto in faccia?
“Non c’era bisogno che la cacciassi via” bofonchiò Marco. “Se le hai chiesto di prepararci la cena, potevi almeno avere la decenza di trattenerla per le presentazioni…”
“Ma no. Era passata solo un attimo perché le ho chiesto di ritirarmi un paio di vestiti dalla lavanderia” rispose Andrea. “Era di fretta. A sapere che stavi già qui sotto, certo che la trattenevo. Mica mi vergogno. Né di te né di lei.”
“‘Naggia, sempre intempestivo io… Potevo arrivare un attimo prima o un attimo dopo…?”
Andrea decise di chiudergli la bocca con un bacio. “Vado un attimo in bagno. Tu non dare troppe occhiate in giro, al massimo da’ un occhio al sugo che non s’attacchi…”
Cosa vuol dire: non dare troppe occhiate in giro? si chiese Marco per un momento, risolvendo fosse un modo per suggerirgli di non far troppo caso al disordine.
In due mesi di frequentazione, era solo la terza volta che metteva piede in casa di Andrea. E gli garbava parecchio. Sostanzialmente perché era molto più grande del suo appartamento. Si sviluppava addirittura su due piani, con una stanza nel sottotetto cui si accedeva tramite una ripida scala che occupava tutta una parete del soggiorno, e con i due lati esposti dell’appartamento interamente percorsi da una balconata che offriva una bella vista sul quartiere e sulle colline a nord della città. Aveva anche due bagni ed una seconda stanza da letto che –presumeva erroneamente– Andrea probabilmente utilizzava come studio.
Marco sapeva che l’appartamento era di proprietà di Andrea, ma non aveva ancora avuto occasione di approfondire se l’avesse acquistato con i soldi che s’era guadagnato lavorando o se fosse stato aiutato dalla famiglia. Cosa che in realtà non voleva nemmeno veramente sapere, per non nutrire ed accrescere quel principio di invidia che provava quando rifletteva sul dato di fatto che Andrea era nettamente più fortunato di quanto fosse lui.
Mentre attendeva in soggiorno, Marco notò tra i ripiani della libreria un paio di foto incorniciate cui non aveva fatto caso nei precedenti sopralluoghi. Una fotografia ritraeva Andrea in un giardino in posa accanto ad una ragazza ed in mezzo a loro un bambino: la giovane donna ed il cucciolo d'uomo avevano entrambi occhi e capelli degli stessi colori del suo ragazzo, cosicché Marco assunse che si trattasse della sorella e del nipotino; alla sorella Andrea aveva fatto riferimento in un paio di occasioni, ma del nipotino Marco non l’aveva ancora sentito parlare. Nell’altra foto, il bambino era da solo in un grande cortile con un grembiulino azzurro, sicché si poteva dedurre che il nipotino di Andrea avesse compiuto almeno i tre anni.
Marco udì lo sciacquone del bagno e si ricordò che gli era stato raccomandato di dare un occhio al sugo. Corse in cucina, preoccupato di non essere sorpreso a dare troppe occhiate in giro. E mentre rigirava il ragù, si chiese se Andrea intendesse cuocere anche lui a fuoco lento, e se ormai non fosse già cotto a sufficienza.

L'episodio 1.
L'episodio 16.